Lotto 285 – capitolo quattordici

“Il sentimento di uno che è nell’angustia, e arriva aiuto, ma lui non si rallegra perché viene salvato – non viene affatto salvato -, bensì poiché arrivano nuovi giovani, fiduciosi, pronti ad intraprendere la lotta, inconsapevoli sì di ciò che li aspetta, ma di un’inconsapevolezza che non toglie ogni speranza a chi li guarda, ma induce all’ammirazione, alla gioia, alle lagrime. A ciò si frammischia anche l’odio per colui contro il quale è diretta la lotta.”

Franz Kafka

Era già giorno fatto, quando, ancora assonnato, e ancora scosso da quelle visioni che non sapevo se fossero state reali o parte dei sogni che avevo fatto le notti precedenti, ero uscito sulla banchina alla ricerca della toilette, per rinfrescarmi un poco e prepararmi a prendere il primo treno che fosse sopraggiunto, e, naturalmente, che si fosse fermato. Non avevo bagaglio e quindi potevo tentare di salire anche al volo, ma avevo timore che, facendo qualche brusco movimento, si potesse notare la pistola che avevo nella fondina, sotto la giacca.

Intanto la mia memoria riandava agli anni della mia prima giovinezza, quelli presi dall’impegno di costruire una cultura nuova, meno asfittica, rispetto a quella del regime. Volevamo istituire, io ed altri compagni dediti all’affermazione di quella cultura, e sotto l’aiuto di personaggi celebri del teatro e della letteratura,  quello che poteva dirsi un cenacolo. Lo strumento che trovammo fu quello del teatro, che ci consentiva una certa autonomia dai dettami del regime e nel contempo ci consentiva di avere contatto con attori e registi liberi, per quanto potessero esserlo in quegli anni di conformismo culturale. Ma non ci rivolgevamo ad autori futuristi, sovietici o italici che fossero, ma ad autori la cui esperienza in campo teatrale era riconosciuta in tutta Europa, i cui membri erano anche stati insigniti del titolo di Accademico d’Italia, che si consideravano non del tutto ostili all’ambiente culturale nei quali erano costretti ad operare, ma con i quali era possibile un dialogo. Ci spingeva la forza delle nostre idee. Uno di questi era Massimo Bontempelli, che con la sua scrittura realistico-fantastica affascinava le nuove generazioni. E Luigi Pirandello, che con la sua tendenza allo scavo dei sentimenti attraverso personaggi-manichini, percorreva già le strade del  teatro dell’assurdo che sarebbe andato in voga negli anni del dopoguerra. Ma noi, per una sorta di incoscienza giovanile, ritenevamo quegli autori un semplice veicolo per formare una compagnia, persuasi che quella fosse la strada per emanciparci dalle ristrettezze del regime. Non eravamo dei semplici gregari, ma ci consideravamo dei veri e propri organizzatori di cultura, come si sarebbe detto trent’anni dopo, mentre il lavoro vero lo conducevano le compagnie alle quali facevamo riferimento. Per ciò, come militanti di questa cultura, occupammo teatri, sensibilizzammo gli attori ad una maggiore aderenza alle istanze dell’antifascismo e ci formammo noi stessi, nella pratica, come agit-prop, senza immediati fini politici, ma consapevoli che si dovesse attuare una rivoluzione, anche se pacifica, per contrastare il regime.

Ma il clima non era del tutto favorevole alle nostre istanze. I partiti politici erano stati messi fuorilegge, perciò era il Tribunale speciale che decideva chi doveva essere perseguito per reati contrari al  codice allora vigente, che impediva ogni scritto, manifestazione od assembramento che divulgasse idee contrarie al fascismo. Era quindi un regime di pura oppressione, anche se mascherato da opere che lo facevano apparire moderno e liberale. E poi c’erano da aggiungere le liste di proscrizione che venivano divulgate dalla prefettura, senza nessun criterio se non quello di contrastare gli oppositori. Questo era il fascismo che avevamo sopportato per vent’anni e questo era il fascismo che dovevamo combattere. Parecchi di noi furono mandati al confino, operazione subdola per mascherare un vero e proprio incarceramento. Alcuni di noi furono effettivamente imprigionati, anche se in relativa condizione di sicurezza, perché malati o sofferenti.  Altri furono costretti ad emigrare ad altri furono effettivamente soppressi e di loro non si seppe più nulla se non mesi dopo l’esecuzione, avvenuta certo in circostanze dubbie, ma suffragate da prove che facevano ricadere la colpa  su emissari del regime. Per non parlare delle persecuzioni naziste che già si verificavano nel Nord Europa fin dai primi anni del dopoguerra.

Tutto questo era il bagaglio che ci portavano addosso, non volendo più essere complici, se mai lo eravamo stati, di quel massacro sistematico che insanguinava l’Europa.

Così, mentre mi avviavo sulla piattaforma alla ricerca della toilette, lasciai libero il pensiero, riflettendo su un gran numero di idee sconnesse che mi affollavano la mente,  che qui voglio trascrivere, e che mi sarebbero state di aiuto nei mesi a venire:

 “La parola sangue non ha plurale. Quanto sangue, si dice per un delitto efferato, il sangue versato, si dice per un sacrificio o una guerra. La sangre in spagnolo è femminile. Santa sangre. Eppure è un sostantivo maschile e come tutti i sostantivi richiede un plurale. Anche la parola latte non ha plurale. Latte come vita e sangue come morte. Non piangere sul latte versato. Evidentemente esso ha altrettanto valore simbolico del sangue. Nel versarlo si riscontra un tabù, forse nel berlo solo il sangue è un tabù mentre il latte è un nutrimento primario. Esangue è un aggettivo che richiede il plurale. Sangue come identificazione di razza.  Sangue e suolo.

“Vitam et sanguinem!” era l’omaggio che si faceva da parte dei principi ungheresi nel ‘700 alla regina, motto che fu poi ripreso sulla Croce militare austriaca nella 1^ guerra mondiale. Corpo e sangue di Cristo. La legge del sangue, che rimanda alle leggi fondamentali della natura, prima fra tutte quella del sangue appunto, come presupposto per la rigenerazione della razza. “Il popolo italiano ha creato col sangue (probabilmente il nostro, senza considerare quello dei popoli aggrediti, (n.d.a.)) l’impero.”: Benito Mussolini, alla proclamazione dell’impero.”

Queste ed altre riflessioni, è vero, mi tennero occupato per un bel po’, ma una cosa era certa; che mi trovavo vicino alla mia meta, che era quella di raggiungere “La Sapienza”, anche se non sapevo cosa in effetti fosse,  se un luogo o un semplice termine filosofico.  Avevo anche assicurato, un po’ avventatamente, ricordo, all’anziano signore che mi aveva ospitato giorni addietro, che quello era lo scopo del mio vagabondare, una volta trovata la strada che mi avesse condotto alla città. Tuttavia pensai anche che quello poteva essere un viatico che mi era stato imposto da chissà quale entità per mettere alla prova il mio coraggio nell’affrontare le dure esperienze che mi sarebbero occorse, come quella della clandestinità e dell’uso delle armi per vendicare quei morti. Ma la guerra, si sa, impone queste scelte e noi (io e i miei compagni) non potevamo esimerci dall’affrontarle.

(continua)

di Maurizio Chiararia

 

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