Il lotto 285 – capitolo sedicesimo

Ciascuno di noi si porta appresso, nel sogno, una casa e una città dove abita tutta la vita, l’altra vita, quella del sogno, la più vera, la più stabile.” Leonardo Sinisgalli

Il sole, in quel pomeriggio di metà ottobre, era ancora caldo e si respirava una leggera brezza proveniente dal mare che rendeva piacevole anche restare in un luogo fumoso ed angusto come quello di una stazione, maggiormente se l’attesa dei treni stava diventando lunga e faticosa. Ma sia io che il capitano, dopo esserci scambiati quelle storie non certo piacevoli, non perdevamo la speranza che, almeno prima di sera, giungesse qualche convoglio, non importava se lento come una lumaca o veloce come un fulmine. E soprattutto che fosse diretto nella direzione giusta per entrambi. Fui io il più fortunato dei due, vedendo arrivare dalla destra il tram azzurro che prima avevo perso. Aveva già acceso i fanali, che in quella luce debole del tramonto assumevano l’aspetto smorzato di una candela che sta per esaurirsi, anche perché, per i sobbalzi del mezzo, o per un cattivo funzionamento dell’impianto elettrico, ogni tanto si spegnevano, per poi balenare di nuovo, consentendo a quelli in attesa di sapere in anticipo se esso si sarebbe fermato o meno. D’un tratto poi anche le luci della stazione si accesero e cosi la visione dei vagoni azzurri diventava più chiara e quasi splendente, rinnovando in noi le speranze di poter finalmente salirvi dopo quella lunga ed estenuante attesa. Il tram, infine, si fermò, con un grido di giubilo degli astanti. Corsi verso il predellino di coda per essere sicuro di salire almeno sull’ultimo vagone se il mezzo si fosse mosso troppo velocemente. Afferrai la sbarra di sostegno proprio quando il tram stava muovendosi, per fortuna molto lentamente. Ero finalmente sopra un piccolo, azzurro trenino che mi avrebbe portato per lo meno alle porte della capitale!

Mi sporsi un poco verso la banchina della stazione ma non vidi più l’ufficiale ma ritenni che avrebbe preso il primo convoglio verso il sud, quando fosse arrivato. Pensai, però, con un certo rammarico, di non averlo avvertito di quanto sarebbe stata rischiosa la sua missione. Avrebbe senz’altro raggiunto il contingente che si trovava all’estrema punta della penisola, avrebbe preso contatti con i suoi superiori del Comando Supremo che sicuramente gli avrebbero affidato, dopo averlo istruito e con l’aiuto di altri militari fedeli, messaggi o armi da portare, dopo aver riattraversato le linee, ai gruppi di rifugiati nei dintorni della capitale. Ed appunto quest’impresa mi fece pensare all’esito incerto che avrebbe potuto avere se non fosse stato istruito a dovere. Infatti tutto il territorio al di là delle linee era cosparso di mine ed era quindi estremamente rischioso avventurarvisi. Avrei voluto, o forse avrei dovuto, avvertirlo in anticipo di quel pericolo, anche per rispetto del giuramento  che avevo pronunciato, qualche mese prima, assieme alla giovane che mi era stata accanto fin dalle prime avvisaglie di quella che sarebbe stata l’abdicazione degli stati nei confronti della potenza feroce che stava soggiogando mezza Europa, e che era quello di difendere a tutti i costi la patria. In seguito su di lei avrei scritto queste parole:

“Devo dire che rimasi subito incuriosito dalla figura di questa giovanissima combattente, per metà alsaziana e metà romana. La immaginai forte, determinata, forse anche spietata, di poche parole e, al tempo stesso, generosa e di grande sensibilità d’animo. Due posizioni contrastanti tra loro. Ma chi era questa donna che non riuscivo ad inquadrare perfettamente? Cercai altri libri, articoli di giornale per conoscerne meglio la storia, la vita.”

Avevo infatti percepito fin dal primo momento le sue caratteristiche. Lei che, figlia di due patrie, o forse di tre, comunque di due culture, una delle quali si accingeva a conoscere, quella della nostra patria, dove era nata e da dove era stata costretta ad emigrate da bambina assieme alla sua famiglia, mi aveva incantato, e già sapevo che mi sarebbe stata fedele per tutta la vita, come solo una donna innamorata sa essere.

Anche per questo sentivo un forte desiderio di ricongiungermi ai miei compagni, e soprattutto con lei che, un po’nella mia mente, un po’ nella realtà mi era stata costantemente vicina, sospesa fra la concretezza della terra e la vaporosità dei sogni nell’aria. Ancora una volta i miei pensieri mi portarono a ricordare i tanti episodi in cui mia madre (o la mia futura compagna?) mi paragonava a un aquilone che volteggia libero in alto, ma poi viene necessariamente ricondotto in basso,  o da un colpo di vento o da una mano amica.

Ritenendomi uno spirito libero, mi sentivo a volte come un rappresentante del popolo russo che, nelle mie fantasticherie giovanili sugli anni della rivoluzione bolscevica, era sempre alla ricerca della verità, la Pravda, appunto. Ricerca della verità che poi coincideva con quella della bellezza, e, più ancora con quella dell’esattezza delle proporzioni e dei numeri che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita futura. Ero un poco a digiuno di  cultura greca ma quel mondo classico già mi affascinava: Aristotele, Euclide, Talete,  Pitagora, che in seguito avrei scoperto essere la passione, anche, del mio amico scrittore ed ingegnere che incontrai  fin dai primi tempi dell’occupazione, e di alcuni altri scienziati con cui, in seguito, avrei avuto una profonda corrispondenza di idee. Così, spinto da quel sentimento di libertà che poi avrebbe costituito il nerbo della mia esperienza futura, mi ricordai di un altro episodio della mia infanzia.

Avevo sette od otto anni ed ero in collegio, quando ci venne a trovare, mettendo in subbuglio tutto l’ambiente, un uomo barbuto, dall’aspetto trasandato, dallo sguardo spiritato, che lo faceva assomigliare a un Rasputin moderno. Era venuto a prendere un suo nipote che nel frattempo era diventato uno dei miei più cari amici e quindi quel distacco forzato mi aveva reso triste e sconsolato come non mai. Cercai poi in seguito di scoprire chi fosse quell’uomo e seppi che era stato un leader del Partito Comunista, che poi aveva lasciato,  ed era stato costretto, in quei difficili anni del dopoguerra, a condurre una vita grama, senza lavoro, lui che era stato uno dei primi a schierarsi dalla parte dei lavoratori sfruttati. Questo personaggio attraversò gli anni del fascismo imperante, in bilico tra la fedeltà ai suoi ideali di rivoluzione e una certa condiscendenza al regime. Quest’ultima gli consentì, in un primo momento, di vivere una vita più dignitosa e di fondare addirittura una rivista, dal nome “La Verità”, che avrebbe ospitato anche scrittori ed idee non necessariamente contigui al fascismo. L’avrei trovato poi, in uno dei miei viaggi nel nord come agente segreto, impiccato, nelle ultime fasi della liberazione, assieme ad altri personaggi fedeli al regime. Non seppi mai, pur conoscendone il nome,  e avendo fatto delle ricerche, quale fine avesse fatto quello che doveva essere stato il figlio della sua figlia, il mio caro amico d’infanzia che mi era stato proditoriamente strappato dal cuore.

(continua)

di Maurizio Chiararia

Print Friendly, PDF & Email