Meglio comandare che…

Nell’ultimo mese i mezzi d’informazione si sono dedicati soprattutto a due avvenimenti che, per la loro gravità, hanno monopolizzato l’attenzione dei giornalisti e del pubblico: i fatti della nave Diciotti ed il crollo del ponte Morandi. Molte sono state le cronache, molti i commenti, ma si sono trascurati alcuni aspetti di queste vicende, che sono state un importante  banco di prova del governo e, come una  cartina di tornasole, ne hanno rivelato alcuni elementi “chimici” fondamentali.

Cominciamo, per spiegarci meglio, dall’episodio della nave Diciotti, tralasciando volutamente gli aspetti umanitari e la narrazione politica corrente.

Chiunque abbia banalmente preso una patente nautica, sa bene che il “Corpo delle Capitanerie di porto-Guardia costiera” è stato inquadrato funzionalmente ed organizzativamente nell’ambito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) e, quale corpo specialistico della Marina Militare, del Ministero della Difesa per le funzioni di ordine militare (riforma Bassanini, di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, entrata in vigore nel 2001).

Ha dipendenza funzionale dal MIT al quale si riconducono i suoi principali compiti istituzionali, e dai dicasteri del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, e del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, che si avvalgono della sua organizzazione e delle sue competenze specialistiche (scusate il tono burocratico: ho fatto copia-incolla dalla normativa, per non rischiare di sbagliarmi).

Avete capito bene: non dipende in alcun modo dal Ministero degli Interni. Salvini non c’entra niente e non ha, né ha mai avuto, alcuna competenza o diritto di dire ad una nave della Guardia costiera che cosa fare, dove, quando e se attraccare.

C’è poi l’indagine della magistratura su altre eventuali violazioni (come sequestro di persona ed arresto illegale): volendo essere garantisti, non si può dire “a priori” che il ministro sia colpevole. Ma l’abuso d’ufficio è nei fatti ed è proprio plateale. Soprattutto, c’è il dato politico che a guidare il nostro ministro non sia il rispetto delle leggi (il ministro degli interni dovrebbe essere il primo a rispettarle, visto che il suo compito principale è farle rispettare) ma il desiderio di occupare la scena politico-mediatica.

In democrazia non si può non governare secondo le leggi: solo nelle dittature chi è al governo comanda e la sua volontà diventa legge. Voglio dire che, a prescindere da qualunque giudizio sulla politica migratoria, il comportamento di Salvini ha di per se stesso inferto una grave ferita al nostro ordinamento democratico, sulla cui Costituzione lui  aveva giurato soltanto pochi mesi prima. Ma forse, il povero ministro non se n’è reso conto: occupato com’è a twittare e a far selfie, non ha avuto il tempo di informarsi sulle sue effettive competenze e sui limiti delle sue funzioni.

E poi, il fatto di aver preso dei voti, molti o pochi che siano, non autorizza nessuno a sentirsi al di sopra delle leggi. Essere eletti non conferisce questo privilegio, e non è una delega in bianco: è una delega a governare, non a comandare.

Anche il crollo del ponte Morandi, al di là delle umane tragedie che ha provocato, ha fornito una chiave di lettura interessante sulla nostra politica.

Il ministro delle infrastrutture e trasporti (che, tra l’altro, avrebbe avuto il compito preciso di occuparsi della nave Diciotti al posto di Salvini, ma forse anche lui era distratto) ha istituito con lodevole velocità una commissione d’inchiesta che accertasse le responsabilità del crollo. Era così convinto che queste fossero totalmente a carico del gestore (Autostrade per l’Italia: nome ironico, che personalmente modificherei in Autostrade per gli azionisti, in considerazione degli ampi margini di guadagno) che ha nominato a presiedere ed a far parte della commissione alcuni tecnici che, poco dopo, sono stati oggetto di comunicazione giudiziaria da parte di magistrati che su quelle responsabilità stanno indagando. Una svista? Un’ingenuità? Resta il fatto che alcune persone, che avevano un chiaro ruolo di responsabilità (per conto dello Stato) sulle condizioni di sicurezza del ponte, sono state chiamate a dare un giudizio tecnico sulle responsabilità: una contorsione che la magistratura non poteva non evidenziare.

E poi, il più normale buon senso ci dice che la responsabilità sulle infrastrutture è in parte del gestore ed in parte del proprietario e controllore, cioè dello Stato, rappresentato, nello specifico, da quel ministro. Ma la “politica” nel suo insieme si è auto assolta, come se non avesse responsabilità alcuna su ponti e strade di questo sfortunato Paese.

L’aspetto politico di quelle scelte è preoccupante. Da una parte c’è il metodo del capro espiatorio: si indica un colpevole prima di avere il benché minimo elemento di giudizio (d’altronde, a questo serviva la commissione da lui nominata: o era un bluff?). Anche questo metodo non appartiene alla democrazia: è tipico, piuttosto, delle dittature. Non basta essere populisti: bisogna proprio avere una voglia inconfessata di totalitarismo.

Dall’altro c’è la confusione. Un conto è volere una commissione tecnica, un altro è affidarla a chi è parte in causa. Un conto sono le scelte politiche (nazionalizzare o dare in gestione? quale progetto per le infrastrutture di Genova e d’Italia?) un altro è l’accertamento delle responsabilità. Io non so di certo chi verrà condannato: ma tanto pressapochismo da parte di un ministro non avrei proprio voluto vederlo.

Infine, un raggio di luce (?) è venuto dall’architetto Renzo Piano, che ha offerto in dono un bellissimo progetto per un nuovo ponte.

Il commissario delegato all’emergenza per il crollo del ponte Morandi, nonché “governatore” della Liguria (Giovanni Toti) si è affrettato ad accettare il progetto e ne parla ormai come di cosa acquisita. Ma, ancora una volta, non è così che dovrebbe funzionare. Da un lato l’offerta dell’architetto è un atto di concorrenza sleale nei confronti dei suoi colleghi, che si sono trovati tagliati fuori da qualunque possibilità di presentarne altri: ed infatti le norme deontologiche del loro ordine professionale non lo consentono proprio. Dall’altro, per le opere pubbliche di così grande importanza sarebbe necessario un concorso. Che Piano potrebbe vincere, per quanto è bravo, ma senza togliere ad altri il diritto di partecipare: magari qualcuno potrebbe essere anche più bravo. Non si parlava di meritocrazia? Non si dovrebbero dare delle possibilità anche ai giovani? E il progetto non deve essere approvato dagli organi tecnici competenti? Per cose così importanti e delicate, è più importante far prima o far meglio? Però, far prima giova all’immagine politica, dà una maggiore risonanza mediatica.

In fondo, le regole non dovrebbero esser viste come un ostacolo, ma come uno stimolo a far meglio: a vagliare, a scegliere, a non commettere altri imperdonabili errori. Se il ponte è crollato, è proprio perché alcune regole non sono state osservate. E’ dai tempi di Berlusconi che assistiamo ad una forma di allergia per le regole, sempre viste come un inutile ostacolo, mai come qualcosa di utile: e niente è ancora cambiato.

Sembra proprio che il successo elettorale a qualcuno abbia dato un po’ alla testa e che il vecchio detto: “è meglio comandare che…fare l’amore” sia diventato la stella polare della politica di governo. Ma  posso rassicurarli: non è vero per niente.

di Cesare Pirozzi

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