Il Cluedo turco-saudita in cui potrebbe aver perso la vita il giornalista Jamal Khashoggi. Ennesimo attacco alla stampa?

Può un uomo entrare in un consolato e non uscirne più, fino a perderne definitivamente le tracce? Sì. In special modo se si tratta di una delle penne più affilate della stampa mondiale. Si tratta di Jamal Khashoggi, giornalista saudita, da anni columnist di uno dei giornali più importanti al mondo, l’americano Washington Post. Di lui si sono perse le tracce il 2 ottobre e quanto trapelato in seguito non promette nulla di buono.
Procediamo per gradi.

Il 2 ottobre Khashoggi è a Istanbul e si reca nel consolato saudita per sbrigare delle pratiche: video di sorveglianza lo mostrano entrare, ma non si è mai visto uscire e del giornalista non si hanno più notizie da quel giorno. Khashoggi era una firma molto critica nei confronti del governo del suo paese, l’Arabia Saudita, in particolare verso il principe ereditario Mohammad bin Salman, molto vicino invece al presidente Trump. Proprio il principe ha chiesto che venga effettuata una perquisizione all’interno del consolato affinché la verità venga fuori. Altrettanta collaborazione arriva da Ankara e gli Stati Uniti, paese d’adozione del giornalista, si sono detti pronti a collaborare. La versione saudita però rimane la stessa: il giornalista ha lasciato l’edificio poco dopo aver sbrigato le pratiche relative a un matrimonio. Perché allora il Washington Post rivela, grazie a una fonte tra gli inquirenti turchi, che si sta indagando per “omicidio premeditato”?

Non solo, il quotidiano americano parla anche del fatto che, secondo una iniziale ricostruzione, Khashoggi si sarebbe recato una prima volta nel consolato saudita il 28 settembre, quando però gli è stato chiesto di tornare alcuni giorni dopo. In quei giorni sarebbero stati inviati da Riad a Istanbul una squadra di 15 uomini. Per fare cosa?

Una fonte investigativa turca, citata dal New York Times, sostiene che Khashoggi sia stato fatto a pezzi e portato fuori dal consolato in alcuni sacchi neri poi caricati su un mini-van. Gli esecutori sarebbero i servizi segreti di Riad che avrebbero poi parcheggiato il mezzo nel garage di un appartamento di un console a 2km di distanza dal luogo del presunto omicidio. Da Riad però smentiscono questa ricostruzione che ritengono “priva di fondamento”.

Alcuni giorni prima della scomparsa l’intelligence americana ha intercettato degli agenti segreti sauditi che immaginavano un piano per poter catturare Khashoggi: perché non si è fatto niente? Soprattutto, il giornalista è mai stato avvertito di questo pericolo? Quattro mesi prima del 2 ottobre funzionari vicini al principe Bin Salman hanno offerto all’editorialista un lavoro di prestigio e la protezione di cui necessitava, a patto che fosse tornato in patria. Non mi fido neanche un po’ di loro, fu quanto confessò Khashoggi a un amico che oggi rivela le sue dichiarazioni. Infatti sappiamo che l’erede al trono ordinò un’operazione per attirare il giornalista in Arabia Saudita dalla sua casa in Virginia e farlo arrestare.

Ventidue senatori hanno scritto al presidente Trump per chiedergli l’apertura di un’inchiesta. La Casa Bianca, che vede in Bin Salman il suo “alleato preferito, per definizione dello stesso presidente, è messa in seria difficoltà da questa vicenda. Vedremo come si comporterà.

Sembra una partita di Cluedo, quel gioco da tavola in cui devi scoprire l’assassino e sul banco delle prove hai una casa, delle possibili armi e gli ospiti di una festa. Questa però è la realtà e se Khashoggi è stato davvero ucciso in quel consolato si tratterebbe di un fatto senza precedenti e dell’ennesimo, inaccettabile attacco alla libertà di stampa.

di Irene Tirnero

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