Il vizio della speranza, la tenacia della luce

Per molti critici la Festa del Cinema di Roma, giunta alla sua 13edizione non è mai stata e continua a non essere un vero appuntamento sull’arte cinematografica, come lo è in primo luogo e già nel nome quello di Venezia, Mostra dell’Arte Cinematografica. Appena conclusasi all’Auditorium-Parco della Musica, e in qualche altro cinema cittadino, dobbiamo ricordare che la Festa non ha un concorso vero e proprio, ma solo film selezionati, accanto a quelli di sezioni minori o retrospettive particolari. Non ha una giuria e l’unico premio assegnato è quello del pubblico, espresso con un voto on-line su un sito cui è necessario registrarsi. Il film vincitore tra quelli proiettati dal 18 al 28 ottobre 2018 nella selezione ufficiale è risultato Il vizio della speranza, di Edoardo De Angelis. È stato anche uno dei primi film in programma e nel gradimento del pubblico ha resistito con tenacia a tutti gli altri presentati successivamente. Premio del pubblico strameritato, perché De Angelis approfondisce con uno sguardo poetico-drammatico da vertigine i temi e gli ambienti della Napoli litoranea dei suoi precedenti film. Notevoli la colonna musicale e le canzoni di Enzo Avitabile che non sono solo un accompagnamento ma una parte integrante della narrazione cinematografica. Tra i molti titoli di valore, una menzione al genere documentario, con particolare riferimento Fahrenehit 11/9,ossia 11 novembre 2016, giorno dell’elezione di Donald Trump. Una lucida, spietata analisi di Michael Moore non solo del rischio di perdita della libertà che sta correndo l’America, ma anche degli errori, da Clinton a Obama, che hanno abbandonato la classe media e lavoratrice, per rafforzare l’oligarchia economica capitalista, spianando la strada al nuovo Hitler fulvo.

Torniamo però al carattere della Festa del Cinema di Roma, almeno di questa 13a edizione svoltasi dal 18 al 28 ottobre 2018. C’è un termine coniato nell’800, ma poi passato al ‘900, tipico proprio della sociologia capitolina. Il termine è generone, immancabilmente, e non a caso, accompagnato dall’aggettivo romano: generone romano. Un termine riferito alla classe intermedia tra nobiltà, alto clero da una parte e popolo, popolino dall’altra. Una classe di parvenu, provenienti dalla campagna, arricchiti nell’intermediazione agricola tra città e campagna. Esso ebbe una sottoclasse definita generetto, costituita dalla borghesia più minuta, appena sopra gli strati più poveri della città. Un genere sociale e una definizione che resistono anche sotto il fascismo, sopravvivono alla sua caduta, riappaiono nel dopoguerra, negli ambienti descritti da Gadda nel 1946 in Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, e attraverso la sua degenerazione palazzinara, Ancora oggi proietta un suo alone proprio dall’ambiente mondano-modaiolo, del jet set cultural-spettacolare e anche cafonal– secondo la nota definizione e rubrica di Roberto D’agostino –, e come mostrato nel film del 2013 di Paolo Sorrentino, La grande bellezza.

Si può allora affermare che la Festa romana mette insieme una specie di generone cinematografico, un amalgama capace di aggregare cultural, cafonal e generetto cittadino, in un’atmosfera dared carpet society, in cui bagnarsi, lustrarsi, mostrarsi? E soprattutto – ove questo fosse pur vero e negativo – riesce a essere davvero una festa attesa, sentita, vissuta, fatta propria da tutta la città? Certo è difficile stare dietro a tutte le sezioni, le offerte, gli eventi speciali, le conferenze, i dibattiti, gli incontri che la Festa propone. Tra questi ultimi quello seguitissimo con Martin Scorzese che ha tenuto sul cinema italiano una vera e propria lectio magistralis. Possiamo dire con certezza che pur uscendo molti film presentati alla Festa anche nei normali cinema della città e a prezzi più bassi (o essendo addirittura già in sala), molti romani sentono di doverli venire a vedere all’Auditorium, magari perché al prezzo di 23 € quella sera in Sala Sinopoli o Petrassi sono presenti anche le dive, i divi, le registe, gli autori del film, e può capitare di avere una poltrona non lontana da loro. Da questo a fare della Festa un vero evento civile, della civitas, prima ancora che cultural-spettacolare, ce ne passa ancora, nonostante l’importanza di Roma nella storia del cinema nazionale e come set privilegiato nel presente di molte produzioni internazionali.

Una riflessione più approfondita di quanto qui consentito meriterebbe la sezione autonoma Alice nella città, giunta alla sua 16aedizione, dedicata soprattutto alla condizione adolescenziale-giovanile, che presenta sempre novità di sguardo narrativo critico e di innovazione del linguaggio, della forma del cinema nella contemporaneità. Vincitore di questa sezione Jellyfish, un film dell’inglese James Gardner, il quale ha avuto la capacità di rappresentare con maggiore forza drammatica e innovazione narrativa molti dei temi presenti anche negli altri film della sezione e pure a livelli sempre alti. È la storia di una ragazza, costretta dall’assenza del padre, dalla presenza allucinata della madre, dall’abbandono da parte di questa dei due fratelli minori, dal bullismo scolastico, dallo sfruttamento lavorativo, a uscire fuori della pelle della sua età ancora adolescenziale, e ad affrontare da sola il cinismo, la brutalità, la chiusura della società nei confronti della solitudine, della sofferenza e alienazione giovanile. Ripetiamo, però, che la quasi totalità delle opere in questa sezione presentava caratteri di originalità e innovazione molto proficui. Una sezione, tra l’altro, che quest’anno ha visto la partecipazione mattutina di molte scuole e che – a differenza della selezione ufficiale – aveva una giuria composta di ragazze e ragazzi, che negli incontri con gli autori dei film dimostravano una sensibilità, uno spirito di osservazione e di giudizio davvero maturi. Per questo stupisce che questa sezione abbia quest’anno subito una restrizione sia nello spazio di proiezione, sia nell’ampiezza delle proposte.

Un’ultima menzione a parte la riserviamo a una vera pietra preziosa della selezione ufficiale. Si tratta del film An Elephant Sitting Still, (Un elefante sempre seduto), del cinese Hu Bo, della durata di circa quattro ore. Le vicende di quattro persone in una città della provincia cinese, che si intrecciano drammaticamente, raccontate attraverso uno stile cinematografico, fatto di inquadrature e piani sequenza mobili che entrano come un bisturi nella geografia, nell’urbanistica, nell’antropologia sociale della Cina d’oggi, senza mai fare alcun discorso politico ma con una capacità di introspezione universale e d’immagine da penetrare anche nella carne viva dello spettatore di ogni altro luogo del mondo. Un geniale poeta del cinema, Hu Bo, suicida a soli 29 anni, proprio appena finito di montare questo capolavoro.

Nonostante la disperazione di Hu Bo, a noi resta se non il vizio della speranza, la tenacia della luce nella sua opera che lascia molto da studiare, riflettere, sussumere per una inedita capacità di espressione del senso del cinema e dell’esistenza.

di Riccardo Tavani

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