Il lotto 285: capitolo ventidue

“Non si dovrebbe raccontare mai niente, né dare dati né tirare in ballo storie né fare in modo che la gente ricordi degli esseri che non sono mai esistiti né hanno mai messo piede su questa terra né attraversato il mondo, o che invece ci sono passati ma erano già in salvo nell’orbo e incerto oblio.”

Javier Marìas

Profondamente colpito da quelle parole mi avvicinai a lei, strinsi le sue mani nelle mie in segno di gratitudine e mi avviai di corsa di sotto lasciando l’aviere a intrattenere le due signore. Prima di uscire mi accorsi che l’uomo cercava di spiegare alle ospiti come si fosse  trovato a dividere con me tutte quelle peripezie, dichiarandosi comunque estraneo alla lotta armata ma nel contempo desiderando con convinzione di parteciparvi. Le due donne mostrarono di approvare il comportamento leale di quel neofita. Io intanto scendevo le scale a lunghi passi per far partecipi i miei compagni dei risultati ottenuti e per riabbracciare la mia di compagna ed assicurarle che era ormai fuori pericolo.

Ma, arrivato che fui nell’atrio, mi accorsi che il portone non era più sbarrato ed era anzi spalancato da un lato sulla strada. Ciò mi rese più guardingo nell’addentrarmi nel sottoscala, col sospetto che qualcuno fosse entrato, certamente invitato da qualche inquilino, e si fosse nascosto da qualche parte, o che qualcuno fosse uscito col pericolo di essere sorpreso dal coprifuoco che si stava avvicinando. Non notando nessuna presenza nell’androne o su per le scale corsi al rifugio, mi feci aprire la porta sempre sbarrata ed entrai. La candela si era esaurita e quindi non distinsi bene le presenze all’interno, ma sospettai, dalla calca  che si era prodotta, che fossero nel frattempo aumentate di numero. Ad un tratto, come per incanto, la luce elettrica fece la sua comparsa nella stanza. Era stata azionata, seppi poi, dal portiere del palazzo che era sceso nel corridoio, sicuramente solidale con noi, per consentire ai rifugiati di riconoscere bene i nuovi arrivati, fuggiaschi anch’essi. L’abitacolo era quindi affollato fino all’inverosimile, tanto che stentai a raggiungere la mia compagna per portarla di sopra. Lei giaceva ancora sul pagliericcio, tremava e si lamentava, ma, vedendomi, si appoggiò sui gomiti e mi fece cenno di tirarla su. Era una ragazza forte, nonostante la sua giovane età, o forse proprio per questo, e fu subito in piedi dopo essere sgusciata fuori dal sacco. Ma la sentii malferma sulle gambe e dovetti sostenerla per fare i primi passi. Notai, con mio grande raccapriccio, che aveva i piedi fasciati da bende intrise di sangue che non le consentivano una qualche deambulazione, perciò la presi di peso (era leggera e minuta come una bambina) e la portai di sopra attraverso le scale. Lasciai così, con lei, il tugurio, che, con mio grande sollievo non avrei più rivisto, senza molto curarmi dei quattro rimasti. Per fortuna la luce elettrica, che era tornata nel corridoio, mi guidò nella difficile salita. Arrivato che fui al primo piano mi venne subito aperta la porta come se all’interno avessero presagito la nostra venuta. Con trepidazione l’aviere e la giovane donna mi sollevarono da quel peso e con ogni precauzione portarono la sofferente in una stanza da letto contigua al salone. Fu subito distesa su un ampio letto a baldacchino e fu amorevolmente curata dalla giovane combattente, dalla sorella più grande e dalla madre. Le furono tolte da mani esperte le bende sanguinanti e, dopo varie abluzioni e balsami lenitivi, le piaghe guarirono e lei poté indossare di nuovo i pesanti scarponi e riprendere il suo passo deciso.

Ma le nostre traversie non erano ancora finite perché venimmo presto avvertiti dal portiere, rivelatosi veramente nostro sodale, che era imminente una retata nel palazzo da parte della Guardia Nazionale, la quale era stata messa sull’avviso dal furto della pistola. L’intrepida combattente, che avevamo imparato a conoscere,  non si perse d’animo e si mise subito in moto, ordinò al portiere di far salire tutti gli altri componenti della banda, salutò con un lungo e commosso abbraccio la madre e la sorella e ci condusse tutti alla porta di servizio, aperta la quale ed affrontata una ripida scala a chiocciola, sbucammo, finalmente in salvo, nel cortile sul retro del palazzo.

Era notte e c’era il coprifuoco. Attraversammo le vie di Roma deserta senza neanche incontrare una pattuglia. C’era in cielo una grande luna che illuminava le strade quasi a giorno, così potemmo orientarci nel cercare di trovare altri nascondigli. Eravamo ormai una banda composta da otto persone e, pur essendo quasi tutti vestiti da civili, almeno tre di noi indossavano ancora delle divise, il che poteva renderci sospetti agli occhi dei pur radi passanti che incontravamo. Decidemmo così di dividerci in piccoli gruppi, io e la mia compagna, tre degli sconosciuti, la nostra salvatrice con l’ultimo sconosciuto e l’aviere. Il vincolo della clandestinità ci imponeva di non rivelare agli altri la propria identità, così, disperdendoci, ciascun gruppo avrebbe perso i contatti con l’altro ma all’ultimo momento ci venne in mente di informarci reciprocamente su dove e quando ci saremmo dovuti trovare in caso di pericolo o per concordare le successive azioni. E mentre ci lasciavamo a quel punto l’aviere volle stringermi con forza la mano e volle assicurarmi che quando ci saremmo rincontrati mi avrebbe messo a parte di quel segreto che aveva tralasciato di svelarmi. Anche da parte mia lo assicurai che gli avrei raccontato la mia vicenda che mi aveva portato a conoscerlo, forse non casualmente, qualche giorno prima ed in circostanze insolite. Solo allora mi accorsi che non conoscevo il suo nome né lui il mio, cosa del resto comune con gli altri componenti del gruppo. A tal proposito volli chiedere loro, prima che se ne andassero, se conoscevano un certo Lotto 285, indirizzo che mi perseguitava da molto tempo, non sapendo ancora se fosse parte di un sogno o fosse un luogo reale. Avevo avuto, spiegai loro, questa indicazione soltanto da un biglietto il cui contenuto mi era già riapparso davanti in almeno tre occasioni e che volevo una volta per tutte togliermelo dalla mente. Ma, volgendomi le spalle mentre se ne andavano, tutti negarono di  conoscere, e che  cosa nascondesse, quel numero misterioso. Un po’ deluso ma anche un po’ pentito per aver rivelato quella mia ossessione che poteva essere soltanto la fantasia di una mente sognatrice, mi avviai anch’io, prendendo sotto braccio la mia rinata compagna, verso un luogo che solo io conoscevo e che ritenevo sicuro rifugio, cioè la mia abitazione. Ma inaspettatamente lei  a un certo momento mi chiese dove stessimo andando e mi ricordai solo allora che non avevo ancora rivelato alla mia accompagnatrice l’ubicazione dell’appartamento. Così le dissi genericamente che si trovava in centro, non molto distante da dove eravamo.

La notte era stellata e l’aria fresca e invitante fece riapparire in me quel desiderio, subito represso, quando, molto tempo prima, avevo equivocato nella stanza dove mi aveva portato le sue reali intenzioni. Così venni spinto improvvisamente a rivelarle, forse per la prima volta, tutto il mio amore e  la volontà di sposarla. Lei mi guardò sorpresa, si strinse più forte a me e, senza dire una parola, sollevandosi sulle punte dei piedi, mi schioccò  un bacio fugace sulla bocca e, mentre a me sembrava di essere salito in paradiso,  si staccò da me ed allungò il passo decisa.

Percorremmo tutto il viale della romanità reinventata, il lungo corso sul quale ci affacciavano antichi palazzi, una piazza con al centro un’ enorme colonna istoriata, e voltammo sulla destra. Una strada in leggera salita, piena di negozi eleganti, ci portò alla  viuzza che ben conoscevo il cui nome celerò per gli amici lettori dentro un nuovo anagramma: “CI DO BOCCA, LE CI VA.”, riferendomi al bacio di prima.

di Maurizio Chiararia

(continua)

 

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