La Douleur

Prendiamo uno dei film più conosciuti e visti al mondo: Casablanca, del 1942. Diretto da Michael Curtiz, con Ingrid Bergman e Humprey Bogart, il film fu tratto da una pièce teatrale quasi sconosciuta. Il titolo è Everibody Comes to Rick’s, di Murray Burnett e Joan Alison.  Proprio perché il testo teatrale e i due autori erano così poco noti, i tre sceneggiatori del film si sentirono liberi di sconvolgere completamente quel testo e la sua trama, ai fini di un intrigo non più solo sentimentale ma anche storico-politico. Fu proprio tale tradimento a conferire al film quell’intramontabile aura cinematografica di cui ancora gode. Per una più completa e doverosa cronaca ecco i nomi dei tre sceneggiatori di Casablanca: Julius J. Epstein, Philip G. Epstein, Howard Kock.

Nel film La Douleur, invece, ci troviamo di fronte al testo letterario di una delle scrittrici più note e lette al mondo: Marguerite Duras. Il cinema ha più volte attinto alle sue opere, e la difficoltà maggiore per registi e scrittori di cinema è stata sempre quella della intangibilità, del rispetto quasi sacro dovuto alle trame e alle pagine dei suoi libri. Il regista di questo film, Emmanuel Finkiel, compie un’operazione ancora più temeraria. Essendo rimasto all’età di 19 anni, fulminato dalla bellezza dell’omonimo romanzo della Duras, si è arrischiato a mettere in scena interi, lunghi brani del film. Operazione temeraria, perché il cinema è soprattutto immagine e mal sopporta intrusioni letterarie troppo invasive e reiterate. Eppure c’è da rimanere stupiti di quanto l’autore sia riuscito a fondere mirabilmente pagine scritte e immagini filmate in un indistinguibile unicum. E a ben vedere è anche l’unica scelta giusta che poteva fare per rendere il più fedelmente possibile lo spirito di questa particolare opera durasiana. Particolare perché si tratta di un romanzo-diario. Una prima parte di pagine diaristiche intime, biografiche, emotivamente irruenti, letterariamente poco sorvegliate: “Da far vergognare la letteratura”, scrive infatti la Duras. Una seconda parte più narrativa, elaborata, alta. Dunque Finkiel non poteva limitarsi a scegliere un’attrice, pur all’altezza del compito, per interpretare la scrittrice. Doveva mettere in scena e in abisso la Duras stessa. E cosa c’era di meglio delle sue pagine scritte, per raccontare questa tranche de vie, questi brani dolorosi della sua storia reale, durante l’occupazione nazista di Parigi nel 1944?

L’attrice scelta dal regista per interpretare la scrittrice è Mèlanie Thierry, francese, ex ginnasta, ex modella, poco conosciuta, già vista in Italia, oltre che in una parte de La leggenda del pianista sull’oceano, del 1998, di Giuseppe Tornatore, soprattutto come protagonista nel film di Ricky Tognazzi del 1999 Canone Inverso. Una scelta che l’attrice ricompensa totalmente, con un’interpretazione della Duras che restituisce il suo stile umano e letterario, proprio attraverso i mezzi più propri della recitazione: espressioni facciali, sguardi, toni di voce e movenze fisiche. Mezzi che qui riescono a connotare non solo un personaggio ma un’intera atmosfera storica, bellica, antropologica. Il volto della Thierry riassume  davvero i tratti somatici tipici di una Francia femminile che non si arrende alla brutalità dell’occupazione ma neanche al dominio delle convenzioni sociali. Per questo iltesto, nel suo contenuto di verità, per quanto letterariamente individuale ha un valore di testimonianza universale.

Il tema centrale di questo film è quello dell’attesa, dell’attesa che tortura, consuma, corrode fino al midollo osseo l’essere umano. Lo era anche in Casablanca, dove l’attesa ormai delusa di Rick per Ilsa aveva totalmente consumato, ridotto al cinismo, all’indifferenza umana e politica il protagonista. La Marguerite de La Douleur, invece, non si riduce mai al cinismo. L’attesa di notizie, di possibilità per liberare il marito catturato dalla polizia francese sottomessa ai nazisti, è sì una tortura sulle carni vive della scrittrice, ma un supplizio che paradossalmente lei rovescia, per vedere meglio dentro sé stessa. È come se quelle condizioni estreme aprissero squarci più inaspettati, meno retorici, e dunque più liberi, autentici nelle sue sotterranee pulsioni psichiche, desideri fisici. Antiretorica di uno sguardo che si fa direttamente visione del mondo, filosofia di vita, poetica, stile letterario. Ecco perché il regista aveva bisogno dei brani della Duras, così come lei li ha scritti, molto più della loro riduzione cinematografica a battute di dialogo tra i personaggi veri o rielaborati della sua vicenda. Una visione cruda e antiretorica che arriva a toccare, a menare un’affilata, inaspettata rasoiata anche contro la figura di eroe della resistenza, padre e presidente della nuova patria francese, il generale Charles De Gaulle. Figura questa che in Casablanca, invece, resta come aura di fondo, che riverbera sul risveglio politico di Bogart-Rick, simbolo della decisione americana di entrare in guerra e inviare finalmente le sue truppe contro la Germania hitleriana che aveva messo sotto i cingoli dei suoi carrarmati tutta l’Europa.

In occasione della Giornata della Memoria, il 27 gennaio di ogni anno, per non dimenticare quella nostra catastrofe continentale che si chiama Shoah, Olocausto, sterminio nazista di milioni di ebrei, questo film è da vedere, perché squarcia una visuale del tutto inaspettata, originale ma nello stesso tempo potente contro quell’immane e incancellabile crimine storico.

di Riccardo Tavani

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