Il Regno Unito si scopre fragile nel cammino verso la Brexit

Quando si fanno i conti con la realtà, l’impatto è tanto più forte quanto più grande era il sogno. Il Regno Unito sta facendo i conti con la realtà e con se stesso. Il voto dello scorso 15 gennaio è diventato la più grande sconfitta nella storia parlamentare britannica. Con 230 voti di differenza Westminster ha respinto l’accordo che la premier May aveva faticosamente raggiunto con l’Ue, dopo un anno e mezzo di trattative. L’incertezza e lo smarrimento dominano e non solo a livello politico. A provarlo sono i prezzi delle case in continua diminuzione, segno di bassi investimenti.

Per il momento May resiste, riuscendo a respingere la mozione di sfiducia proposta dai laburisti. Il suo accordo, invece, sembra ormai tramontato. A scatenare l’opposizione interna al governo è stato il cosiddetto ‘backstop’. L’intesa raggiunta con Bruxelles prevedeva un periodo di transizione dal 29 marzo, giorno in cui scatterà l’uscita dall’Europa. Il backstop è, in sostanza, il meccanismo di emergenza in caso di mancato accordo durante il periodo di transizione. Il Regno Unito sarebbe rimasto all’interno dell’unione doganale e, vero punto dolente, si sarebbe evitata la creazione di un confine rigido tra Irlanda del Nord e il resto dell’isola irlandese. Questo meccanismo era reversibile solo in caso di reciproco consenso.
Il voto, inizialmente previsto per l’11 dicembre e poi rimandato per evitare il caos, è alla fine arrivato. Theresa May doveva essere la Prima Ministra che avrebbe riunito un paese spaccato in due. Ora è costretta ad affrontare una situazione ancora più frammentata. I più conservatori, come l’ex Segretario di Stato Boris Johnson, ritengono un’uscita senza accordo migliore della prospettiva che il compromesso di May avrebbe previsto. Quello del no-deal è lo scenario giudicato peggiore dalle imprese con il governo che, in sordina, ha già iniziato a prepararsi. Nelle scorse settimane ha allocato grosse cifre per il noleggio di traghetti al fine di evitare congestioni che potrebbero essere causati dai maggiori controlli al confine marittimo e di mantenere il rifornimento di cibo e medicine. I pro-Ue, invece, invocano la prospettiva di un secondo referendum, sostenendo che dopo anni dal primo ora i cittadini britannici siano più consapevoli di cosa rappresenti la Brexit. Altri, ancora, sostengono una soft-Brexit con il Regno Unito dentro il mercato unico europeo, ispirandosi in parte al modello norvegese.

La realtà ha messo in crisi le convinzioni di molti politici che sostenendo il ‘Leave’ proclamavano che sarebbe bastato uscire dall’Unione Europea per riprendersi il controllo sul proprio destino. Molti hanno creduto ad un veloce ritorno verso antichi fasti imperiali. Ora la politica si sveglia scoprendosi impotente e incapace di risolvere un dilemma fatto di compromessi difficili. E la crisi che attraversa la democrazia rappresentativa fa più rumore nel paese definito ‘la madre di tutti i parlamenti’. Dall’altra sponda della manica, invece, i piani alti dell’Ue mostrano di nuovo la loro natura di burocrati più che di politici con un legittimo mandato popolare. Ignorando di nuovo la rabbia anti-establishment che ancora cova nelle periferie britanniche così come negli altri paesi. Una rabbia svelata già dai disordini del 2011 e su cui le classi dirigenti ancora non riescono ad aprire gli occhi.

di Pierfrancesco Zinilli

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