Alla ricerca della paranza perduta

Roberto Saviano doveva incontrare venerdì scorso il pubblico romano al cinema Quattro Fontane nei due spettacoli serali de La paranza dei bambini. Ha disdetto all’ultimo momento l’appuntamento. Probabilmente perché sempre più insistenti si facevano le voci di un prestigioso premio al Festival di Berlino che si sarebbe concluso proprio il giorno successivo, sabato 16 febbraio. Il premio l’ha effettivamente avuto: l’Orso d’Argento, per la migliore sceneggiatura. Sceneggiatura scritta da lui insieme a Maurizio Braucci e al regista del film Claudio Giovannesi E lui era puntuale là, alla Berlinale, a ritirare l’alto riconoscimento, dedicandolo alle ONG del mare che salvano migliaia di vite umane tra le onde del Mediterraneo.

Noi, però, eravamo ugualmente là al Cinema Quattro Fontane di Roma per la proiezione del film. Da un po’ di tempo che le sale cinematografica, nelle pubblicità che precedono il film, mandano anche spot sulle serie televisive. Come?! – mi domando – le sale mandano pubblicità che invita la gente a non andare più al cinema ma a starsene a casa vedere le serie? D’altronde vediamo anche gente al bar, sui treni, in biblioteca che se le vede su Pc, tablet, smartphone e persino iwatch al polso. Lo domando al mio vicino di poltrona: “Sono inserzionisti pubblicitari come altri, pagano bene, ergo: pecunia non olet”. Sì, ma ad ogni incasso le sale scavano di più la fossa della loro definitiva sepoltura.

Finisce la pubblicità con l’invito a spegnere i cellulari. Molti lo lasceranno acceso e continueranno a consultarlo per tutta la proiezione. I piccoli piranha dei display hanno iniziato da un pezzo a divorare il grande schermo. Inizia il film tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano La paranza dei bambini, realizzato dal regista Claudio Giovannesi. In effetti, dopo la scena introduttiva del furto e incendio d’albero natalizio, ti trovi già direttamente dentro il prolungamento di una serie napoletana già vista. La stessa Gomorra, tratta e ispirata da Saviano, ad esempio. Con l’età dei protagonisti abbassata, però. Certo, non è un fattore trascurabile, ha la sua notevole importanza sociale e antropologica. Come genere, però, ci troviamo sempre dentro la serie TV. Ci sono tutte le premesse narrative, ed è possibilissimo – anche a  considerare l’ultima scena – che il film si sviluppi poi in una serie televisiva. Viene così il dubbio che la sala sia già diventata solo un supporto fisico di lancio di prime puntate di serie televisive. La cosa sta già avvenendo con le biopic, i film sulla vita delle pop star italiane (De André, Mia Martini): tre soli giorni in sala, e dopo un paio di mesi subito in TV. Sono stati prodotti, scritti, montati per le necessità e le scansioni pubblicitarie della TV. Con il cinema hanno poco a che fare. Solo che se vogliono anche partecipare a qualche festival cinematografico – come appunto quello di Berlino –, devono uscire almeno una volta in sala.

La messinscena di modi, gesti, gusti, taglio capelli, smarmittamenti, fraseggi, cazzeggi e lazzi paranzini, anche nel rapporto con i loro genitori e con i boss di quartiere, è molto accurato, criminal-realistico. E dunque in sé spettacolare. Anzi, uno dei punti di forza della spettacolarità seriale sta proprio in tale verosimile televisivo. Solo che il prolungamento delle stagioni seriali produce un effetto di assuefazione. Ci abituiamo presto a caratteri, facce e vicende reiterate.  Ecco che l’abbassamento anagrafico irrompe come un decisivo elemento di variazione narrativa e d’immagine. Come nasce, come parla e si veste, che musica ascolta, cosa canta, come pensa, agisce, ridisegna il crimine laneonata, ossia il novellame ittico armato?

Un’altra domanda si fa strada nel buio della proiezione. Se Roberto Saviano vive blindato, recintato, perlopiù all’estero, come fa a conoscere così nei dettagli l’outfit, ossia l’abbigliamento e persino gli accessori paranzini? L’outfit, non solo in senso modaiolo, ma soprattutto di attrezzatura gergale, comportamentale, antropologica di un’enclave tanto particolare e a suo modo esclusiva? Evidentemente s’informa, si rivolge a una pluralità di persone che interroga ossessivamente, maniacalmente, perché non è facile rendere l’autenticità dei ragazzi, degli ambienti, delle situazioni. Viene così in mente che centodieci anni fa la stessa febbrile, inarrestabile ricerca la svolgeva a Parigi l’immenso autore della Recherche. In Alla ricerca del tempo perduto, Marcel Proust mette in scena, spettacolarizza, espone letterariamente un altro ambiente inaccessibile al grande pubblico del suo tempo: quello della più alta nobiltà francese. Ogni notte prende il largo con il suo barchino, le sue lampare di scrittore sconosciuto e getta le reti nei caffè, nei salotti, nelle vie, per pescare anche la minima frase pronunciata e intonata in un ricevimento d’alto rango. Lo fa per andare alla radice di un carattere non solo della Francia ma della stessa nozione universale di tempo.

Nel giro di poco più di un secolo abbiamo così un rovesciamento che dall’apice parigino precipita nei fondaci, nei bassi napoletani. Ma è in gioco lo stesso senso esistenziale universale, a parte la sproporzione, l’incommensurabilità artistica delle due opere letterarie? Sembrerebbe di no. Non tanto perché qui siamo nella Napoli violenta ch’a pucchiacchia in man a ‘e creauture, e lì nella Parigi capitale storica e culturale del mondo di allora. Anche perché Saviano ha spiegato che quello che lui descrive della Napoli odierna accade ormai in tutte le latitudini metropolitane d’Italia e del mondo. No, non è in gioco lo stesso senso esistenziale, perché sono proprio la direzione e l’oggetto della ricerca che cambiano. Memoria, tempo, arte, storia, esistenza contro mutevolezza, impermanenza, insensatezza di vita e cronaca quotidiana, anziad horas, minuto per minuto. Simbolo di queste ultime è proprio la continua novità, neo-età, regredire inarrestabile del crimine all’età infantile.

Nicola ha quindici anni, è senza padre, vive con un fratellino e la madre titolare di una piccola lavanderia che subisce – come tutti i commercianti – l’estorsione periodica del pizzo camorristico. S’innamora di Letizia ma non si può neanche avvicinare ai locali che lei frequenta perché ha le tasche asciutte. Dotato di acuto spirito di osservazione, riflessione e comando, decide con la sua paranza, il gruppo di amici adolescenti in motorino, di dare la scalata al potere delinquenziale del suo quartiere. Per imporre una nuova legge, una nuova giustizia, abolendo innanzitutto il pizzo ad ambulanti e piccoli commercianti, riservandolo solo a quelli più grandi. Lo spaccio capillare della droga e l’implacabile controllo a motorino armato dei confini territoriali sarà sufficiente a un vorticoso arricchimento con cifre da capogiro. Spettatore ardente e altrettanto epidermicamente acuto dell’ascesa di Nicola è proprio il fratellino Cristian, con cui divide la misera cameretta di casa. Infranta è proprio ogni gradualità di passaggio da una generazione camorristica all’altra. L’unico passaggio è il salto, pugni, cervelli e fegati armati.

Non è però tanto l’oggetto arma da fuoco in mano a ‘è criature, ai bambini paranzini, a rappresentare un altro elemento di novità del genere serie televisiva d’azione. Lo è invece proprio il motorino. Il fatto che a Napoli esista una extraterritorialità legislativa che consente di circolare sui motocicli di ogni cilindrata senza l’obbligo del casco, consente ai registi di restituire un’immagine cinematografica romanticamente sedimentata in noi della moto, di chi la guida, di chi è sul sedile posteriore. Faccia scoperta, capelli al vento, Nicola e Letizia corrono felici sulle loro due ruote con meccanica e carrozzeria sempre più potenti e prestigiose. A Napoli legalmente, però, si può montare anche in tre a cavallo dei sellini. E quando la paranza di Nicola inforca le sue moto impugnando scopertamente mitra e pistole, ecco che un altro cliché immaginativo stratificato nella nostra memoria di spettatori – consciamente o inconsciamente – di colpo emerge. Le moto sono cavalli, chi ci è sopra cow boys, o meglio banditi armati che irrompono nel quartiere-villaggio vomitando una pioggia di fuoco. Il genere western affiora sotto la pelle neo-mediatica della serie TV. Tra la Via Domizia e il West, per parafrasare una canzone di Guccini. A parte l’irruzione – nella prima parte del film – di anonimi poliziotti in divisa a un matrimonio camorristico – quella che non si è proprio vista è la stella, la figura di uno sceriffo, di un ispettore, di giudice istruttore. Non è detto che nell’eventuale proseguo seriale la lacuna non possa essere colmata.

Quando Letizia e Nicola, tentano una loro disperata fuga in moto verso la spiaggia pugliese di Gallipoli, cominciano a essere bersagliati da pallottole sempre più ravvicinate. La colonna sonora poteva allora essere benissimo la cover italiana fatta da Fabrizio De André della canzone di Bob Dylan Romance in Durango: “Nun chiagne Maddalena/ Dio ci guarderà/ e presto arriveremo a Durango/ Stringimi Maddalena/ ‘stu deserto finirà/ tu potrai ballare o’ fandango”.

di Riccardo Tavani

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