Il lotto 285 – Capitolo ventotto

“La mente è in un triste stato quando il Sonno, che tutto ammanta, non riesce a confinare i suoi spettri nella oscura regione su cui domina, e lascia che essi ne evadano, turbando questa vita reale con segreti che forse appartengono a un’esistenza più profonda.”

Nathaniel Hawthorne – Racconti narrati due volte

   Dopo quell’azione, tornati a casa che era già notte, mi veniva difficile coricarmi di nuovo nel mio letto. Sembrava che avessi fatto qualcosa di inusuale, di torbido, che mi faceva pensare che non fosse stato vero, reale, anche se anche adesso, tangibilmente, avevo accanto la mia compagna e sapevo che gli altri erano tornati sani e salvi alle loro abitazioni. Dopo esserci spogliati e detersi dal sudore che la paura e la tensione ci avevano lasciato sui corpi, anche nel letto, che poteva diventare il rifugio agognato dopo quella difficile avventura, non riuscivamo a prendere sonno.  Cercai di allacciarmi lentamente a lei che mi giaceva accanto, ma avevo paura che si fosse già addormentata anche se i suoi occhi chiusi all’interno ancora si muovevano irrequieti (lo notati dal leggero palpitare delle palpebre), quindi pensai che stesse sognando. Poi le sue labbra si aprirono in un impercettibile moto di sorpresa, si mossero e pronunciarono, come un sospiro, un nome che non riuscii a intendere, qualcosa come Paul, Paolo, Pal. Non poteva essere. Ebbi l’impressione che lei stesse sognando il mio stesso sogno, o che quello fosse variato a seconda della sua sensibilità e conoscenza. Era difficile che lei avesse incontrato qualcuno (o qualcuna) con quel nome e se l’avesse incontrato come mai riappariva in un sogno e non solo in un ricordo che conservasse e non avesse confessato al suo compagno che adesso la stava guardando? Si sospetta che ci siano quelli che sognano e quelli che vivono i sogni di quelli che sognano. Quelli che sognano sognano quelli che vivono i sogni di quelli che sognano e quelli che vivono i sogni di quelli che sognano sognano i sogni di quelli che sognano quelli che vivono i sogni di quelli che sognano.

   Questo apparente non-sense a scatole cinesi ai miei sensi appariva come troppo complicato perché avvenisse realmente, così mi attenni alla sola prima proposizione, cioè quella che i sogni generano altri sogni, sia nello stesso dormiente, sia nella persona con cui condividi pensieri, opinioni, sentimenti, azioni. Guardai più attentamente quella figura che ora mi appariva come una sagoma scura nel letto dalle lenzuola candide, quasi sfuocata, e notai che la sua mano si muoveva come volesse afferrare qualcosa che le stava vicina e la volesse stringere fra le dita. Lo stesso movimento, pensai, che lei aveva fatto tempo addietro sotto la tavola di casa sua, durante una cena familiare, solo che adesso le sue dita non imitavano solo una pistola ma si muovevano come per impugnarla. A volte nel sonno ci sembra di fare qualche azione che fa parte del sogno ma che poi viene eseguita nel dormiveglia, come toccare qualcosa che non c’è, stringere le mani su qualcosa che è solo aria. E poi ci svegliamo e non percependo alcunché sprofondiamo di nuovo nel sonno aspettando nuovi fantasmi.

   Non volli svegliarla, anche se la mia curiosità mi spingeva a farlo. Aspettai la mattina dopo (avevo passato la notte quasi insonne), quando la vidi sgusciare dal letto rapida senza nemmeno guardarmi e dirigersi verso la sedia dove erano appoggiati i suoi vestiti e infilare una mano nella tasca dei pantaloni militari, come in cerca di qualcosa. Era proprio la pistola che aveva imitato nel sonno. La tirò fuori e me la diede e vidi che il caricatore era vuoto. Le chiesi se l’avesse usata di recente, certo prima del mio ritorno, e lei, senza darmi risposta, mi confessò che durante la mia assenza aveva conosciuto in un bar del centro una ragazza alta, bionda, che portava una divisa militare che non apparteneva a nessuna arma conosciuta, almeno per lei, e che quindi le faceva sospettare, guardinga com’era, che fosse un’infiltrata o che addirittura appartenesse ad un corpo speciale dell’esercito nemico. La ragazza però non aveva un aspetto aggressivo e lei, essendo vestita in borghese ed avendo ben nascosta nella borsetta la pistola, volle attaccare discorso, parlando prima in francese, per sincerarsi di quale nazionalità fosse, poi in italiano e sembrò che lei capisse quest’ultima lingua. Sicura di avere davanti una persona disponibile la sconosciuta cominciò a raccontare:

   “Mi chiamo Pàl. Sono di origine ungherese ma vivevo in Jugoslavia, nella Voivodina che prima faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico, e ora costituisce una enclave di magiari dove gli abitanti parlano ancora la lingua di origine ed hanno abitudini del loro vecchio paese. C’è chi dice che questa popolazione discenda dai Siculi di Transilvania, un’etnia di cui si perdono le tracce nella notte dei tempi. In Jugoslavia, all’inizio della guerra, ho fatto parte dei gruppi cetnici fedeli al Re Pietro II, che hanno come simbolo la bandiera nera col teschio, come quella dei pirati. Combattevamo sia i partigiani comunisti che gli ustascia per antichi odi tribali ed avevamo torturato e ucciso elementi fascisti ma anche partigiani. Gli occupanti tedeschi avevano messo una taglia sul capo del nostro comandante, così cercammo scampo, io e il mio compagno, in Italia. So parlare, oltre un po’ di italiano, il tedesco, il serbo, il rumeno e naturalmente l’ungherese. Posso infiltrarmi quindi fra le truppe che occupano il vostro paese ed aiutare i partigiani, scelta che ho fatto, pur essendo monarchica e fedele al Re, più per l’odio che nutro verso i tedeschi invasori del vostro paese come del mio, che per la mia dimestichezza con la lotta armata.”.

   Dopo aver ascoltato quel discorso, che le sembrava più una proposta, “fu colta da ammirazione, ma non dall’ammirazione che porta alla stima, essendo mista a una certa dose di timore di cui non conosceva esattamente la causa.” ma fu spinta lo stesso a rivelarsi a sua volta per quella che era :

    “Nei mesi precedenti, prima che il mio compagno tornasse dalla sua missione, io partecipavo a quasi tutte le azioni. Io portavo le armi, le riprendevo alla fine, nascondendole nelle borse della spesa, poi ritornavo per vedere gli effetti. Contemporaneamente lavoravo come staffetta, percorrendo a piedi o in bicicletta tutta la città. A volte partecipavo con un ruolo secondario. L’azione di noi ragazze era preziosa perché facevamo da copertura nei momenti culminanti delle azioni e per la possibilità di introdurci negli ambienti fascisti e nazisti e raccogliere informazioni.”.

   Non è difficile che fra clandestini prima o poi ci si incontri, ci si faccia riconoscere con uno stratagemma e si saldi un’amicizia che si spera non sia tradita da nessuno dei due, ma io volli avvertirla su quanto fosse pericoloso entrare in contatto con persone sconosciute, soprattutto di un altro paese, anche se le giustificazioni che ella adduceva sembravano sensate. Quella donna era sempre una transfuga, una torturatrice e, forse, un’assassina. Quel nome, Pàl, ricorreva troppo spesso nei sogni miei (e forse anche nei suoi) per non destare sospetti. Naturalmente io non le descrissi il mio sogno né lei il suo, ci guardammo con una certa diffidenza, che però svanì subito quando lei cominciò a narrare la prima (e forse l’ultima) delle loro gesta:

   “Fu lei a condurmi verso il primo appuntamento con la morte. Eravamo  in una strada in salita, e l’ungherese non aveva ancora  avuto il battesimo di fuoco con me in precedenti azioni. Eravamo entrambe munite di pistola. Ci mettemmo di posta davanti ad un grande albergo del centro aspettando che uscisse un’ufficiale in divisa, il quale poco dopo si presentò sulla soglia. Sembrava non appartenesse alla Wehrmacht, ma a qualche corpo di un’altra nazionalità perché aveva una lunga barba bluastra, lunghi capelli neri arruffati che celavano uno sguardo tenebroso e inquietante ed un piccolo berretto dalla foggia rotonda che gli cascava da tutte le parti. Sembrava più un brigante che un militare. Si guardava in giro, forse alla ricerca di un’altra persona, un attendente, un graduato, un soldato. Doveva essere un ufficiale di alto grado, si vedeva dalle mostrine e dal portamento. Lo seguimmo per un po’ nella discesa poi ci avvicinammo a lui che ci voltava le spalle, estraemmo le pistole e facemmo fuoco quasi contemporaneamente. Tirai per prima il grilletto ma la pistola non sparò. Sparò lei un colpo che sembrò andare a segno, tanto che l’uomo cadde pesantemente a terra gridando, ma non prima di aver estratto a sua volta l’arma ed aver esploso un colpo verso la mia compagna che si accasciò al suolo, inerte. Raccattai la sua pistola ed ebbi il tempo di fuggire e di dileguarmi tra la folla, senza curarmi di guardare se fosse morta.

   Ricordai poi, come una sorta di flashback, che la giovane donna aveva nella tasca interna sinistra della giacca, quasi come un giustacuore, una copia in italiano del libro di Ferenc Körmendi, “Peccatori”, con una dedica autografa dell’autore ad un certo Capitano F. Be.***, che aveva trovato su una bancarella nei nostri, molto radi, giri di ricognizione per la città.”

   La storia (vera o presunta) di Pàl, l’ungherese, era finita.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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