Segni particolari

Diceva Germanico, comandante delle legioni romane sul Reno e padre dell’imperatore Gajo Cesare meglio conosciuto come Caligola, che “l’uomo non parla con le parole, e qualche volta nemmeno con gli occhi. Parla come i cavalli, come i cani da caccia, con fremiti e tensioni del corpo. Se temi che mentisca guarda come si contraggono le sue dita, come si muovono i suoi piedi”.

 Gesticolando ci possiamo far capire. È un modo d’esprimersi. I segni e i gesti potrebbero diventare un linguaggio comune. Non sarebbe una brutta idea, quella di creare un linguaggio dei segni e dei gesti. Magari ridotto “all’osso”, ma molto utile per farci capire in terra straniera. Qualcuno dirà, che esiste, che è quello dei sordomuti, vero, ma quello è più complesso e comunque si basa sulla lingua del proprio paese.

Un linguaggio gestuale univoco, uguale per tutti, invece ancora non esiste. Potrebbe essere preso in considerazione come materia didattica, non è da scartare questa idea. Qualcuno può ritenerla idiota o illusoria, ma il gesto o il segno è la prima cosa che ci viene spontanea fare, quando il nostro interlocutore non ci capisce verbalmente. E poi il gesticolare è stato il primo modo di comunicare, da quando l’uomo fece comparsa su questo pianeta.

Pensate quando si danno indicazioni stradali, pensate a quanti segni si fanno con le mani per indicare svolte, rotatorie, salite, discese o divieti. Tante e senza rendercene conto. Si gesticola per dare più peso a quello che si dice. Immaginate una partita di calcio, allo stadio è classico urlare “arbitro cornuto”, ma non basta, perché insieme ci si abbina il gesto delle corna fatte con le mani. A dimostrare che, non mi senti ma mi vedi. Le corna come segno dispregiativo. Cambia in positivo se oltre indice e mignolo apriamo anche il pollice, nel linguaggio dei giovani significa “ti amo”.

Più si fatica a farci comprendere verbalmente, o per la lontananza dei soggetti o per il rumore di fondo che non facilita la comunicazione, più si gesticola. I gesti possono identificare correnti politiche: il braccio teso con il pugno chiuso identifica un soggetto di sinistra, sempre il braccio e mano tesi identifica come soggetto di destra. Nel mondo militare poi sono usati per dare ordini, usati specialmente nei reparti speciali per coordinarsi in azione. La mano tesa sul berretto per un militare è un segno di saluto.

Ci sono anche i gesti volgari, uno dei più diffusi è quello di mandare a quel paese tenendo il dito medio della mano alzato. Chi fa dei segni una vera e propria coreografia è il popolo napoletano. La sua comunicazione verbale è quasi sempre accompagnata da una gestualità pronunciata. Il grande Totò, nei sui film, la esaltava al massimo, dandogli quella sfumatura di ilarità. A volte faceva più ridere un suo gesto che una sua battuta.

Paese che vai usanza che trovi. Il significato di un gesto, non sempre corrisponde alla stessa cosa in un altro paese. Ciò che da noi può assumere un significato positivo, da altri popoli può essere interpretato negativamente. Ad esempio da noi sorridere, significa accogliere in modo favorevole ciò che viene detto. In Giappone invece è considerato indice di disaccordo. Da noi il “si” viene fatto con il capo, dall’alto al basso, nello Sri Lanka lo stesso gesto significa “no”. Mettere le mani in tasca dalle nostre parti assume un significato di informalità, in Cina invece è ritenuto un gesto offensivo. Il pugno chiuso con il pollice alzato, da noi significa “OK”, anche se di derivazione americana, in estremo oriente significa “te lo metto…”, in Brasile “grazie”, in Indonesia “dopo di te”.

Si può continuare all’infinito, ma questo è sufficiente a far capire che un linguaggio universale dei gesti forse serve proprio. Nell’era della globalizzazione, solo la lingua parlata non è più sufficiente, per giunta solo inglese. Ci fu un tentativo di lingua parlata universale, l’Esperanto, ma non ha avuto successo.

L’idea di inserire una nuova materia didattica sul linguaggio dei gesti, forse non è da scartare, chissà…

 

di Fabio Scatolini

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