Il lotto 285 – capitolo ventinove

“Tutte le fiabe non sono altro che sogni di quella patria che è dovunque e in nessun luogo.”

Novalis

“E ogni azione è un passo verso il fuoco.”

Javier Marìas

   A questo punto devo ricordare al lettore che all’inizio di questo racconto mi era apparsa in sogno quella sigla  fatidica rappresentata da “Il lotto 285” e quanto questa non fosse la parvenza di un luogo reale ma qualcosa di astratto, quasi non potesse esistere una costruzione con quel nome e quel numero che il sogno non tentava di descrivere se non come facente parte di  una serie di caseggiati che avrei trovato dopo una lunga peregrinazione, e, quando avessi individuato proprio quel luogo, non avessi  potuto dargli una giustificazione di esistenza. Quali abitanti questo edificio doveva ospitare? In quale tempo e per quale funzione? Mi sembra ora di rileggere il racconto di Kafka che avevo messo come epigrafe su alcuni capitoli passati. Anche quello era un palazzo, per di più abitato da persone che si stavano apprestando (almeno una) ad una battaglia, ma era solo un’allegoria del mio reale impegno ad organizzate la lotta contro un nemico pericoloso e preponderante o qualcosa d’altro? Anche quello dell’autore boemo mi appariva come un sogno premonitore, una sorta di indicazione inconscia da cui partire per iniziare la guerriglia, appunto quel Lotto 285. Ma esisteva davvero, dovevo cercarlo per poterci trovare altri compagni disposti a combattere od era invece un obiettivo da raggiungere alla fine del dipanarsi del racconto, dove si sarebbe (ma solo alla fine) verificato lo scioglimento dell’enigma, o semplicemente la fine (o l’inizio) di un combattimento  che appariva senza fine?

   La mia prima missione era fallita, avevo vagato per la campagna cercando di ricongiungermi ai miei compagni, avevo ora un nucleo di volenterosi che era deciso a lottare, avevo portato degli attacchi sporadici contro l’occupante, avevo ricevuto e dato ordini come un buon comandante, avevo fatto sogni di prigionia e di morte, tutto questo a causa di un altro sogno nebuloso recante una sigla certa che avevo trovato riprodotta in più luoghi (e non stavo sognando), avevo coinvolto persone nell’ affannosa ricerca di una “sapienza” che poi non era altro che un luogo di studi che avrei intrapreso più tardi, avevo descritto più con aneddoti e giochi di parole quello che mi stava accadendo invece di utilizzare le mie vere esperienze come testimonianza, ero vissuto con i ricordi della mia giovinezza applicati in qualche modo alla mia vita recente, avevo amato ed ero stato amato nel pericolo continuo che questo amore potesse finire da un momento all’altro per  un’azione avventata, avevo vissuto lontano dai miei genitori, anch’essi in pericolo, avevo promesso a me stesso che avrei raccontato la mia battaglia quando sarei stato vecchio, più per un bisogno di protagonismo che per una vera esigenza di documentazione storica (altri, e molti, l’avrebbero fatto e lo fanno), tutto per quella sigla che doveva rappresentare solo un numero civico o qualcosa di più tragicamente reale.

   Ma queste digressioni non interessano il lettore, il quale ha bisogno di fatti, e, detto tra parentesi, non sono più molto propenso a dover sempre descrivere ambienti e persone fittizie, anche se si tratta di un sogno. So che il compito di un scrittore è quello di immaginare scene (anche in senso teatrale) nelle quali si muovono dei personaggi più o meno credibili ma anche quello di confutare quelle descrizioni. Così mi limiterò a raccontare i fatti come sono realmente avvenuti, come un rapporto militare.

   Questo è il resoconto degli ultimi due episodi di guerriglia:

   “Il giorno dopo l’attacco agli automezzi nemici davanti al Teatro dell’Opera compimmo un’altra azione con spezzoni esplosivi contro i tedeschi che uscivano in massa da un cinema del centro, dove aveva avuto luogo uno spettacolo in loro onore. Quindici tedeschi uccisi e trenta feriti. Nel complesso quasi cinquanta tedeschi furono messi fuori combattimento. Venti minuti dopo l’azione io e la mia compagna ci recammo sul luogo per constatare i risultati ed assistemmo al caricamento su autoambulanze dei feriti. Il giorno seguente i tedeschi anticiparono l’orario del coprifuoco dalle 24 alle 19.”

   “Quando il Comando Generale dei GAP mi dette l’incarico di organizzare un attacco contro il corpo di guardia tedesco al carcere della città, si era sotto Natale. Studiata la posizione, scelsi l’ora del cambio di guardia. In quel momento un autocarro con ventisei tedeschi arrivava davanti all’ingresso del carcere per dare il cambio agli altri ventisei smontanti. Un totale di cinquantadue militari germanici che venivano a trovarsi quasi tutti in mezzo alla strada.

   Ma la strada era strettissima, specialmente nel tratto che andava dall’angolo di una via laterale all’ingresso del carcere, con il vantaggio tuttavia della scaletta che portava sull’argine del fiume, dove c’era una piccola terrazza.

   Capii che portarmi dei compagni significava aumentare le probabilità di avere delle perdite e perciò decisi da solo. Il 26 dicembre, alle ore 11,50 precise arrivai in bicicletta sull’argine. Sul manubrio aveva uno spezzone di tritolo con la miccia. Lo spezzone era avvolto in un pezzo di carta e un esperto artificiere ci aveva aggiunto della balestrite affinché la combustione fosse più rapida. Accesi la sigaretta, pur avendo un forte disgusto per il tabacco, all’ultimo momento e mentre la guardia montante scendeva dall’autocarro e quella smontante si preparava a dar le consegne, afferrai a due mani lo spezzone e lo alzai. Il quel momento mi accorsi che alcuni tedeschi lo guardavano, ma ormai lo spezzone era stato lanciato. Una vampata che giunse fino al secondo piano del carcere e una formidabile detonazione seguirono al lancio. Balzai subito in sella, ma la bicicletta barcollava e stentai a riprendere l’equilibrio per superare il breve pendio che mi separava dal ponte. Finalmente la bicicletta si avviò mentre dalle finestre del carcere cominciava la sparatoria verso di me che fuggivo. A metà del ponte due fascisti mi sbarrarono il passo agitando le braccia, ma le pallottole che tempestavano il ponte li obbligarono a buttarsi a terra.

   Io continuavo a pedalare ma all’uscita del ponte mi trovai impelagato in mezzo alle bancarelle di un mercatino rionale. Donne e uomini scappavano strillando da tutte le parti, mentre io correvo come una palla tra birilli impazziti, finché riuscii a svicolare dove una banda di ragazzi mi si gettò fra le ruote. Scansai anche questi e, sempre pedalando, raggiunsi la libreria di B***, luogo preventivo di rifugio. Due dei miei compagni, che avevano assistito dal ponte all’attacco, non mi avevano visto fuggire, forse perché pedalavo talmente curvo da rimanere sotto il livello del ponte. Per questo pensarono che fossi stato trucidato.

   Alla fine rimasero fuori combattimento otto militari tedeschi.

   Da quel giorno in città non si poté più circolare in bicicletta.          Un’ordinanza del Comando germanico lo proibiva esplicitamente.

   Ma torniamo alla libreria. B*** mi vide entrare, poggiai la bicicletta in un canto e mi buttai a sedere su una sedia, come un morto, ma anche B***, che aveva sentito l’esplosione e mi attendeva col cuore in gola, sembrava non avere più un goccio di sangue nelle vene. Per cinque lunghissimi minuti ci guardammo senza parlare, poi lui mi dette un bicchier d’acqua. Ne avevo proprio bisogno.”

Nota

   Per quanto riguarda i due resoconti non ho fatto altro che volgere alla prima persona singolare e al passato la narrazione, e tacere qualche nome di luogo e di persona. Il primo episodio è tratto da un resoconto di una delle due testimoni (o protagoniste) dell’attacco e il secondo da un articolo di un giornalista, il quale, a sua volta, deve averlo sentito raccontare, così com’era, dalla viva voce del protagonista. (N. d. A.)

di Maurizio Chiararia

(continua)

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