Il mondo brucia in un bianco e nero accecante

Dopo Louisiana, del 2015, Roberto Minervini torna tra la comunità nera del Mississippi, e vi torna con questo nuovo film documentario Che fare quando il mondo è in fiamme?, titolo italiano di What You Gonna Do When the World’s on Fire?A sua volta, però, questo non è che il titolo di uno spiritual, nel quale il coro risponde così: “Correremo dal Signore, scapperemo verso chi può proteggerci”.

Questa vera e propria opera d’arte di Minervini dimostra tutta la vera grande forza del genere documentario. Il suo nudo racconto della realtà presuppone una totale consapevolezza tecnica della macchina da presa, della luce, delle relazioni e dei contrasti tra tutte le sfumature che vanno dal bianco esplodente, al grigio, al nero pastoso, epidermico, che si percepisce tattilmente con le dita attraverso gli occhi. La forma tecnica delle immagini che scorrono sullo schermo restituisce così un contenuto di verità non solo sociale, ma poetico, artistico. Ossia, la qualità della fotografia cinematografica di Minervini è già in sé la più profonda, efficace denuncia del razzismo. Lo è, prima ancora di quello che dicono le folgoranti parole di testimonianza dei protagonisti del film. Lo è, perché questa elevata qualità, questa particolarità tattile della sua grana fotografica, delle sue inquadrature restituiscono dignità esistenziale a chi sono negate voce, immagine e pensiero. Negate, appunto, fino alla brutale eliminazione fisica.

Siamo a Baton Rouge, capitale della Louisiana, la seconda città dopo New Orleans. L’estate del 2017 è stata torrida, sì, ma di pallottole e uccisioni per mano della polizia di giovani neri. Minervini, prima di accendere la sua macchina da presa, vive per mesi tra queste persone, entrando con esse in una sintonia che da esistenziale si fa tattile-fotografica. Lui era partito per fare un documentario sulla musica e i canti della comunità, ma il progetto si modifica man mano che partecipa, che si fa parte della comunità. Quando preme il tasto ON tutto scaturisce naturalmente, direttamente, senza dover battere nuovi ciack, per rifacimenti di scene, inquadrature, discorsi, dialoghi, canti, musiche, testimonianze. Centoquaranta ore di girato per centonove folgoranti minuti di montaggio finale.

Tra le figure di spicco del film, Judy Hill, una donna segnata fin dall’infanzia dai mali devastanti da quella condizione esistenziale avversa che la accomuna a molti del suo quartiere, della sua città. Carica di energia vitale, oratoria, canora, gestisce un bar del quale e per il quale vive. La proprietaria delle mura, però, la vuole cacciare per vendere l’immobile a compratori che vengono da fuori.

Emerge così il problema della gentrificazione, ossia della cacciata dei nativi di una certa area urbana, per vendere case, negozi, magazzini in affitto per progetti di speculazione immobiliare che ne stravolgono il tessuto umano, sociale, ambientale, architettonico. Judy Hill deve così combattere anche contro lo sfratto che sta subendo la madre ultraottantenne dalla casa in cui vive da molti anni, con la minaccia di essere deportata in una zona a est dove non conosce nessuno e dove le condizioni di vita sono ancora più dure per i neri. Questo aspetto ne mette in luce un altro cruciale del film. Le prime e le ultime inquadrature dell’opera sono dedicate al ballo, al canto, ai costumi di tradizione indiano-pellerossa. Baton Rouge, nome dato dai primi colonizzatori francesi, significa Bastone Rosso. Era questo un grande palo di colore rosso che segnava il confine tra i territori di caccia delle tribù Houma e dei Bayou Goula. La tradizione indiana è rimasta radicata nel suolo della Louisiana. A rinverdirla è proprio un nero, Kevin, che impersona un mitico grande capo e guardiano di questa tradizione. La cosa singolare è che i pellerossa furono espropriati e cacciati dalle loro terre originarie, mentre i neri vi furono portati a forza dall’Africa, per lavorarle come schiavi i campi. Sembra, però, che ora i neri stiano subendo la stessa sorte: espropriati, cacciati, economicamente e fisicamente dai loro quartieri.

Ci sono altre due situazioni protagoniste del film. La prima è quella di due fratelli adolescenti Ronaldo, più grande, e Titus, più piccolo. Il padre in prigione, la madre al lavoro, i giochi e il vagare dei due ragazzini per le vie del quartiere sono anche una topografia degli angoli, degli incroci, delle ore del giorno e della sera nelle quali qualche giovane nero è stato pestato, sparato, e gli è stata perfino tagliata la testa. La seconda situazione è legata strettamente a questa. È rappresentata dal Partito delle Pantere Nere per l’Autodifesa. Militanti di questa organizzazione percorrono in lungo e largo le zone più critiche della città, sia recando cibo, bevande e conforto homeless, ai senza casa neri e bianchi che numerosissimi sopravvivono sui cartoni della città. Sia per manifestare, protestare, rivendicare il diritto a difendersi dalla violenza della polizia, dalla magistratura che l’assolve, dalle istituzioni comunali che non restituiscono rappresentanza ai neri, pur pagando essi regolarmente le tasse. Guidati da una militante molto decisa e sicura di sé, le Pantere Nere vestono un abbigliamento di tipo militare rigorosamente in nero, e nei loro slogan, oltre a rivendicare il potere nero, gridano i nomi di tutti quelli che sono stati ammazzati negli ultimi anni, senza che sia stata loro resa giustizia. Assistiamo anche a una pacifica manifestazione davanti a un edificio pubblico, respinta dai poliziotti con manganellate, ammanettamenti, arresti di alcuni militanti. Minervini ha detto: “Per girare questo film mi sono dovuto anche gettare a terra in ben due occasioni per schivare le pallottole della polizia”. “Welcome to our world”, benvenuto nel nostro mondo, gli hanno detto i manifestanti.

di Riccardo Tavani

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