19 luglio 1992. L’ultima giornata di Paolo Borsellino

La giornata di Paolo Borsellino, dal racconto della moglie Agnese, ascoltata in tribunale nel 1995, quel 19 luglio del 1992, giorno dell’attentato, era iniziata con un’insolita telefonata del procuratore capo Giammanco che, alle 7 del mattino, lo avvisava della delega alle indagini dei processi su Palermo, delega che, senza ragione, fino a quel momento gli era stata negata. Un’improvvisa decisione, inaspettata, comunicata come se non si potesse attendere un minuto di più. Una telefonata che, ancora oggi, suona con una connotazione di anomalia ai familiari del giudice, perché tra Paolo Borsellino e il procuratore Giammanco esisteva solo un rapporto di lavoro. E tra colleghi, di solito, non ci si chiama alle 7 del mattino, soprattutto per notizie che possono, comodamente, essere comunicate in orari più consoni.

Uomo raro, Paolo Borsellino. Coraggioso al punto da scegliere, giorno dopo giorno, di procedere nel suo lavoro, nonostante avesse capito che in seno allo Stato si muovevano serpi, personaggi collusi e mancanti di ogni senso morale, che, in quel momento trattavano con la mafia. Borsellino, poco prima di essere ucciso con la sua scorta, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, non fu nemmeno informato dell’arrivo del tritolo a Palermo per il suo attentato e, per questa ragione, aveva avuto una discussione proprio con il procuratore Giammanco che, al corrente della notizia, aveva trasmesso gli atti ma senza avvisare il diretto interessato.

Quando fu azionato il detonatore e l’esplosione risuonò nella via, Borsellino era da poco sceso dall’auto e stava suonando al citofono della madre. Non gli lasciarono tempo nemmeno per pensare. A quell’attentato sopravvisse solo Antonino Vullo che, essendo alla guida dell’auto blindata, non ne fu colpito in modo mortale. Si risvegliò in ospedale. Solo, senza i suoi colleghi, senza il giudice.
Quel tritolo lasciò poco di integro in un’intera via e coinvolse, decine di mezzi, abitazioni. Se ne cercano ancora oggi i veri mandanti, perché da quanto riferito dalla moglie Agnese, Borsellino era rimasto sconvolto, in quegli ultimi giorni di vita, dalla certezza raggiunta del coinvolgimento di uomini delle istituzioni in un rapporto stretto con la mafia. Di uomini “punciuti” (punti) dalla Mafia e che con la stessa erano collusi.Qualche anno dopo si sarebbe parlato di trattativa tra Stato e Mafia.

L’attentato contro il giudice Borsellino è ancora avvolto nel mistero, per molti aspetti. Nella ricostruzione dei fotogrammi successivi all’attentato si vede qualcuno che preleva la borsa del giudice che avrebbe dovuto contenere un’agenda di colore rosso, con dentro gli appunti scritti negli ultimi mesi. Un’agenda di cui con ostinazione si è voluta negare l’esistenza, nonostante le dichiarazioni dei familiari che, chiaramente, ricordavano averla vista e, altrettanto chiaramente, conoscevano le abitudini del loro familiare.
In udienza, nel 1995, Agnese Piraino Leto, moglie di Paolo Borsellino ebbe inoltre a ricordare che il marito, dopo la morte di Falcone, ben sapeva di essere sulla lista omicida e, per questa ragione, ripeteva spesso di voler lavorare tanto e di fretta, perché temeva, come poi accadde, che non gliene avrebbero dato il tempo. Sentiva il peso di quella sentenza di morte, temeva per sé, ma ancora di più per i suoi cari e per gli uomini della scorta. Non avrebbe mai voluto coinvolgerli nella sua fine.

Dopo la morte di Giovanni Falcone, il giudice Borsellino sapeva che era caduto l’ultimo suo baluardo e, possiamo immaginare, che a casa, unico suo rifugio, tornava sentendosi sempre più solo, costretto a diffidare di chi, in passato aveva ritenuto amico.
Indimenticabile uomo e giudice per tutti noi che lo abbiamo amato e vogliamo tramandarne il ricordo, rendendolo presente, soprattutto alle nuove giovani vite.

di Patrizia Vindigni

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