Il lotto 285 – capitolo trentasette

“L’onestà propria del grande artista consiste nel fatto che non appena l’evoluzione del personaggio viene a contraddire le concezioni illusorie per amor delle quali esso si era formato nella fantasia dello scrittore, questi lascia che il personaggio in questione si evolva liberamente fino alle conseguenze estreme, senza minimamente curarsi che i suoi più profondi convincimenti svaniscano in fumo, perché sono in contraddizione con la vera e profonda dialettica della realtà.”

György Lukács

Due mogli

    Si era ai primi di marzo quando il ricordo di tutte quelle peripezie che ho raccontato si era dileguato, era sopraggiunto un periodo di calma, e le nostre azioni avevano subito una battuta di arresto. Decidemmo così di rinforzare il nostro comparto con altri valorosi compagni. Ci eravamo suddivisi in otto zone operative di quattro-cinque elementi ciascuna.

   Non starò qui ad elencare, avendo avuto allora e ancora adesso l’accortezza di tenere segreti gli appellativi che avevamo dato a quei gruppi e i nostri nomi di battaglia, cosi anche da tenere fra loro impermeabili i vari raggruppamenti, ma posso dire che i nomi erano prevalentemente quelli di personaggi famosi che si erano distinti per  le loro imprese a favore della libertà e la giustizia sociale.

   Molti di noi però erano usciti allo scoperto, nella convinzione che fosse prossimo l’arrivo degli alleati liberatori, ed erano stati individuati ed imprigionati e, molti di questi, passati per le armi.

   Ero venuto a sapere anche che uno dei più rappresentativi personaggi della resistenza che fin dall’inizio, essendo più grande di me di dieci anni, aveva combattuto il fascismo ed era stato mandato al confino per questo, era stato prelevato dal luogo nel quale viveva con la sua famiglia ed era stato condotto nel carcere cittadino. Era stato poi trasferito nel braccio controllato dai tedeschi, dove era stato sottoposto a torture, fino a morirne qualche giorno dopo. Solo allora alla moglie era stato concesso di vederlo. Si dice che le sue ultime parole fossero state: “Non bisognerà in avvenire avere odio per i tedeschi”. Lo stesso convincimento che la mia compagna aveva espresso più volte.

   Il sangue. Avevamo già parlato di questo elemento constatando che non ha plurale, che non può essere assorbito da qualsivoglia superficie e rimane indelebile anche sui pavimenti o muri più refrattari e persino sulle mani e sui materiali usati per offendere. Avevamo anche detto che era assurto a simbolo di morte, di cessazione delle vita dei soccombenti, della menomazione di corpi, ma anche di sacrificio e di emblema di bandiere e di vessilli. A me, che aborrivo il sangue, era capitato più volte, nella mia esperienza di combattente, di vederlo scorrere dalle ferite di altri combattenti, da quelle di nemici, da quelle di persone innocenti che si erano trovati inconsapevoli in aree di scontri o di bombardamenti.

   Il latte, anch’esso senza plurale, che da nutrimento alle creature nei primi mesi di vita, che fa parte della nostra alimentazione quotidiana, che viene manipolato per  produrre altri cibi di essenziale necessità, dispensato da mammiferi utilissimi all’uomo, anch’esso è assurto a simbolo ma di vita, di soddisfazione dei bisogni primari di ciascun individuo, e del quale anch’io mi ero nutrito, il che mi aveva consentito di crescere, di sviluppare una persona quale sono adesso.

   Una madre conosce entrambe gli elementi, avendo nutrito col latte dei figli, formato dei giovani che adesso versavano il sangue per la patria, che tornavano a casa feriti o avvolti in un sacco per caduti, il sangue che scorreva sulle membra dei torturati, degli afflitti in catene, dei fucilati, ma anche dei nemici che non venivano certo risparmiati da quegli accadimenti.

   Milk run”, la corsa del latte, era la definizione usata dai piloti alleati,  identificando il percorso mattutino del lattaio per lasciare le bottiglie casa per casa con le veloci incursioni aeree nelle quali sganciavano tonnellate di bombe. Era un “milk run” il susseguirsi dei bombardamenti che avevano seppellito interi quartieri sotto le macerie, che avevano abbattuto, in sei ondate successive, gli scali ferroviari e gli aeroporti della “Città aperta”,  annullando una volta per tutte le facilonerie grottesche di difesa del regime.

   Una madre era aggrappata alla recinzione di una caserma dove erano tenuti prigionieri più di mille cittadini di diversa provenienza, razziati nei vari blitz dell’esercito germanico in quei mesi di occupazione della città.

   Quella mattina una grande folla di donne si era raccolta presso la caserma dell’81° Fanteria, in un viale adiacente ai bastioni della Città Santa, dove si trovavano ammassati gli uomini rastrellati nei mesi precedenti nelle strade del centro e destinati ad essere deportati in Germania.

   Tra le mogli, le mamme e le sorelle che protestavano c’era anche quella donna, madre di cinque figli e incinta al settimo mese. Quando aveva scorto il marito affacciato alle finestre della caserma, era uscita dal gruppo e si era avvicinata alla recinzione per provare a dargli un pacco, preparato da casa, con qualcosa da mangiare. Un maresciallo delle SS le si era parato dinnanzi, aveva estratto la pistola e l’aveva uccisa sul colpo, sparandole all’altezza della gola.

   Ancora una fontana, intorno alla quale ci eravamo radunati noi del nucleo centrale subito dopo il fatto della caserma. Era in una piazza vicina al luogo dove era stata colpita la donna.

   La struttura della fontana si presentava con un grande bacino inferiore circolare che reggeva una base  che a sua volta sosteneva la vasca principale sormontata poi da una vaschetta, sorretta da quattro cariatidi nude sulla quale campeggiava una pigna. Le nudità delle figure femminili della costruzione (o forse la pigna) erano state ritenute addirittura scandalose per quei tempi tanto che il regime ne aveva esautorato l’architetto. In quella stessa piazza si affacciava la bottega di un barbiere a noi solidale entro la quale custodivamo le armi e le munizioni.

   Eravamo stati abilissimi ad impossessarci delle pistole mentre ancora era in corso il trambusto successivo agli spari tra la folla in quel terribile frangente e, con l’intento che questo non causasse altri morti, magari fra le donne che erano state coinvolte nella calca, (avevamo saputo che anche tre nostre gappiste erano state coinvolte nell’assalto alla caserma, ma che con un stratagemma erano riuscite a dileguarsi), eravamo intervenuti sparando e abbattendo due militi che stazionavano davanti all’ingresso di quell’infame luogo di detenzione. Intanto la donna colpita giaceva sul selciato, con uno squarcio nella gola, e, con la gonna un po’ alzata per la caduta,  faceva intravedere il suo, ormai inutile (a meno che il bambino non le fosse sopravvissuto), avanzato stato di gravidanza.

   Sangue e latte si erano ancora una volta ricongiunti.

Nota dell’Autore: Devo ringraziare Alessandro Portelli per la citazione orale del “milk run”, che altrimenti non avrei potuto esibire.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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