Il lotto 285 – Capitolo trentotto

“Sapeva qual’era il turbamento che tormentava i suoi compagni, nono- stante il loro coraggio: lanciare bombe, anche nel modo più pericoloso, era un’avventura; la risoluzione di morire era una cosa diversa: forse il contrario di un’avventura.”

André Malraux – La condition humaiine

Il sospetto

A metà del mese quattro di noi, con la copertura di altri otto gappisti, uomini e donne, fra cui la mia compagna, avevano attaccato con bombe a mano a percussione e una di mortaio leggero, Brixia, modificato a miccia rapida,  un corteo di fascisti armati che sfilavano per una via del centro causando loro numerose perdite tra morti e feriti.

Dopo esserci dileguati in tutta fretta avevamo ritenuto di avere bisogno di un rifugio sicuro dove progettare altri attacchi.

La foto che compare nel frontespizio di ciascun capitolo di questo romanzo è emblematica del luogo in cui ci eravamo trovati noi del primo gruppo di Gap, anche se in sogno e in circostanze diverse, indicatomi da quel misterioso biglietto che conteneva la fatidica frase “Il Lotto 285”. Da lì, in solitaria, avevo iniziato la ricerca di quel luogo e si può dire che le peripezie che mi erano occorse in tutti quei mesi di peregrinazioni (un po’ reali e un po’ scaturite da un dormiveglia piuttosto inquietante) ancora non avevano dato i loro frutti, anche se vi erano stati dei segnali piuttosto tangibili che mi riportavamo continuamente a quella oscura indicazione.

Il luogo in cui ci eravamo rifugiati era un villinetto di periferia mezzo diroccato da un aereo alleato che era precipitato, carico di bombe, su un’abitazione vicina, causando danni irreparabili anche a quel caseggiato.

Questa precaria abitazione ci era stata lasciata da un amico che si era trasferito in un appartamento più confortevole.

Potrà sembrare accademico descrivere quel personaggio che sembrava più una macchietta che un uomo in carne ed ossa. Egli, con fare sibillino, aveva acconsentito a ospitarci in quel tugurio adducendo il motivo che noi , più che dei combattenti, sembravamo dei transfughi in cerca di un alloggio dove nasconderci. Non aveva ancora intuito che eravamo dei gappisti. Ma, sempre nel sogno, come poteva sapere se fossimo stati invece degli emissari nemici? Certamente grazie alle nostre divise che si erano rivelate poi non essere quelle del nemico, ma nient’altro che camuffamenti per non rivelare la nostra vera identità.

Avevo già conosciuto quella persona per avermi dimostrato la sua stima in più occasioni, che non starò qui a rivelare, ma che concerneva la mia attività di teatrante, nella quale avevo coinvolto anche lui, vista la sua cultura e la sua disponibilità. Mi conosceva infatti come un intellettuale amante dei libri e poco propenso a professare un qualche impegno politico, che anche lui aveva dimostrato di non voler praticare.

Era stato lui ad avermi dato l’appellativo di “Il Tignola”, quasi a voler sottolineare la mia costante immersione fra le pagine di volumi più disparati, da quelli scientifici a quelli di semplice evasione. Come avevo già sottolineato in un precedente capitolo quell’appellativo era improprio in quanto l’animaletto che era solito sgusciare tra le pagine dei libri per divorarne gli orli come i topi il formaggio veniva definito come “bibliofago”, mentre la “tignola” non era altro che un insetto dedito attaccare le piante d’ulivo. Comunque mi ero tenuto quell’appellativo un po’ perché lo sentivo coerente con la mia attività di bibliofilo, un po’ per non scontentare il mio interlocutore.

Ma dopo qualche giorno l’amico ( o quello che pensavo che fosse) aveva lasciato la casa che lo  ospitava e aveva fatto ritorno fra le sue macerie. La prima cosa che aveva fatto era stato il minuzioso controllo degli abitanti che lui, forse inconsapevolmente, aveva ospitato e con i quali avrebbe comunque diviso quello spazio.

Il sospetto che sembrava avere, avendo visto come ci muovevamo, con continue uscite ed entrate nelle ore più impensate, portando pacchi e borse, appartandoci poi parlando a bassa voce, era che stessimo preparando qualcosa di grosso,  un attentato forse o qualcosa del genere.

La luce spesso andava via per i continui bombardamenti e dovevamo stare fermi e quindi non potevamo né scrivere né leggere, che erano le uniche attività che ci poteva consentire quel rifugio e le occhiate sospettose del nostro ospite. A tavola, la sera, divoravamo un panino e provavamo uno strano disagio nell’essere osservati da lui anche mentre mangiavamo, perché pensavamo di sembrare ai suoi occhi dei privilegiati che potevano procurarsi del cibo in quei giorni di carestia. Eravamo però diffidenti e guardinghi anche noi e ci scambiavamo solo poche parole di cortesia.

La mia compagna stava leggendo, nelle rare ore di luce, un romanzo francese molto noto a quei tempi. A un certo punto si era accorta che il foglietto che usava come segnalibro era stato spostato rispetto alla sua posizione abituale  ed era stato aperto,  uno dei nostri cassetti che conteneva armi e munizioni era stato forzato, le nostre carte d’identità (false) erano sparse sulla scrivania. Quella persona così apparentemente innocua ci stava spiando ma noi tre, con la massima calma avevamo continuato a svolgere le nostre attività di copertura e lui aveva dovuto limitarsi a scandagliare in tutti gli angoli della casa nella speranza di avere una spiegazione ai suoi dubbi.

Aveva tentato,infine, di avere informazioni accostandosi gradatamente al più giovane di noi, uno studente diciannovenne, da poco reclutato nel nostro gruppo, con l’intento di farlo parlare ma lui era stato sempre evasivo anche se, senza però scoprirsi interamente, aveva sostenuto la sua convinzione di dedicarsi alla guerra di liberazione con le armi. Io e la mia compagna, più esperti, alle sue domande eravamo stati evasivi, benché avessimo più volte  avuto anche noi la tentazione di rivelargli i nostri piani. Per fortuna tutto si era concluso nel migliore dei modi, senza che lui avesse pensato ad alcuna delazione.

Così era venuto il fatidico giorno dell’attacco alla colonna tedesca che quasi tutti i giorni transitava per una via in leggera salita del centro. Allora veramente ci erano venuti utili sia le granate da mortaio Brixia, che avevamo già usato nella precedente azione contro i fascisti, sia l’ordigno esplosivo che avevamo preparato in precedenza. Avevano partecipato questa volta all’azione ben tre gruppi di Gap, che si erano ritirati in fretta senza subire perdite.

Era stato realizzato così il più grande attacco mai effettuato in Europa ai danni di forze nemiche dall’inizio della guerra. Le perdite della colonna tedesca erano state ingenti e nessuno seppe mai da dove fosse venuto l’attacco, né quali fossero stati suoi esecutori, anzi il comandante della piazza aveva sospettato, erroneamente, che i colpi che avevano colpito tanti suoi  compagni fossero partiti da mortai piazzati sulla terrazza della Residenza del Re, poco lontana, e fosse stato eseguito da “comunisti badogliani, quasi un ossimoro, come se i comunisti avessero potuto identificarsi con un Generale comandante un esercito sbandato e con un Re in fuga.

Ed anche se l’esercito, nei mesi precedenti, si era risollevato e riorganizzato, “i comunisti” erano stati i primi a formare delle bande di partigiani ben strutturate, le cui gesta ho avuto modo di raccontare nei capitoli precedenti.  Esse combattevano per gli stessi ideali dei soldati e dei loro comandanti, con in più l’esperienza che alcuni di loro avevano acquisito, con le Brigate Internazionali che erano corse in appoggio alla sollevazione del popolo spagnolo contro un governo ed un esercito traditori alcuni anni prima, e nella sua disperata resistenza contro un nemico preponderante per uomini e mezzi.

 

(continua)

 

di Maurizio Chiararia

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