Il lotto 285 – capitolo trentanove

Il sogno e la storia

“… e perciò[…]non volle inserire racconti né sciolti né attaccaticci, ma solo alcuni episodi, che di racconti avevano l’apparenza, ma fossero però suggeriti dagli stessi avvenimenti che la verità dei fatti presenta; ed anche questi brevemente, e con le sole parole strettamente necessarie ad esporli, pur avendo i mezzi , la capacità e l’ingegno per parlare di tutto quanto l’universo, chiede che non gli si sottovaluti la sua fatica, e lo si lodi, non per quello che scrive, ma per ciò che non scrive.”

Miguel  de Cervantes y Saavedra – Don Chisciotte della Mancia – Apostrofe al lettore, pg. 936 e segg.

Traduzione di Vittorio Bodini

   C’era un’ampia pianura che si estendeva a perdita d’occhio dove vagavano degli uomini (solo uomini, a quanto potevo vedere) con passo incerto, quasi non sapessero dove fossero diretti. Tutti questi uomini avevano in testa una corona che, fra la nebbia del sogno, notai essere fatta di spine intrecciate. Portavano questo copricapo senza che costituisse loro alcuna sofferenza, anzi camminavano ritti, quasi portassero un serto di alloro come si usava nei tempi antichi per incoronare re, imperatori, poeti ad altra gente di rango. Notai però che nell’incedere avevano un’aria sonnambulica, tenendo le braccia e il viso protesi in avanti, quasi stessero scrutando ed indicando un qualche punto imprecisato davanti a loro.

   L’aria intorno era coperta da una sottile bruma, tanto che gli ultimi raggi del sole calante stentavano ad illuminare, seppur fiocamente, la scena che pareva così ancora più oscura ed indistinta. Il folto gruppo poi prese ad avanzare in un’unica direzione, quasi avesse ricevuto un comando.

   La pianura sconfinata non permetteva di scoprire una qualsiasi meta riconoscibile, una casa, una fattoria, un fiume, solo un’ampia distesa di grano attraverso il quale si era incuneato il gruppo, in parte falciando le alte spighe per crearsi un varco, in parte fermandosi in attesa che un qualche sentiero venisse aperto. Arrivato alla fine dello sterminato campo il gruppo si trovò davanti a una zona più brulla, di macchia mediterranea, e proseguì tra quei cespugli fioriti fino a raggiungere il mare. Ma il mare appariva distante perché le alte scogliere ne facevano intravedere solo le onde che si frangevano sugli scogli. Alla fine di un promontorio, che si allungava verso le acque procellose, vi era uno stretto cunicolo che portava a uno strapiombo dove finiva la terra. Il gruppo si incanalò in quello stretto pertugio apparentemente senza avvertire alcun pericolo. Alla fine del tunnel c’era un  uomo in divisa che chiamava per nome uno per uno gli sconosciuti man mano che si avvicinavano e li spingeva sull’orlo del baratro. Ciascun singolo appartenente al gruppo riceveva l’ordine di gettarsi a capofitto nel vuoto e, dopo l’incertezza di alcuni che venivano spinti giù direttamente dal militare, tutti quanti seguirono l’esempio dei primi ed in fila, senza fare alcuna resistenza, si lasciarono cadere sull’aspra scogliera. Alla fine di quel massacro il militare si dileguò, evidentemente compreso del fatto che l’ordine era stato eseguito.

   Alla fine del sogno mi svegliai di soprassalto e, sebbene ancora più spossato di quello che non fossi stato prima di coricarmi, mi alzai, feci colazione con quel poco che la mia ospite mi offriva. Era la signorina di buona famiglia che ci aveva aiutato nelle circostanze drammatiche della nostra permanenza nel rifugio e poi, nell’atto di ricevere l’incarico di sorvegliare la nostra fuga dopo l’ultima l’azione, si era rivelata indispensabile nell’eludere la sorveglianza della milizia e degli informatori in borghese che le si avvicinavano vedendola tenere sul braccio un cappotto di foggia maschile, con risposte evasive ed un sorriso sulle labbra. Dopodiché ci aveva nascosto nella sua dimora borghese, a pochi passi dal luogo dell’attacco.

   Mi vestii e mi accinsi a lasciare l’appartamento per ricongiungermi coi miei compagni, ma, all’improvviso, mi tornarono in mente quelle immagini così tragiche e nette del sogno che le ritenni presaghe di qualche disgrazia imminente.

   Mi apparve però ancora una visione, stavolta ad occhi aperti, un episodio realmente avvenuto del nostro Risorgimento, periodo il quale per noi era un punto di riferimento e di ispirazione, anche se era di  cent’anni fa, e, ancorché lontano nel tempo, tramandato dalla voce popolare e dei poeti.

   Una nave con a bordo una ventina di patrioti faceva rotta verso un’isola vicina dove si ergeva una fortezza nella quale erano reclusi più di trecento fra civili, militari e delinquenti comuni, imprigionati la massima parte per motivi politici. Una volta sbarcati i rivoltosi, con un audace colpo di mano neutralizzarono la guarnigione e, liberati tutti i trecento, li fecero salire su quel vascello e fecero rotta verso la vicina terraferma. Sbarcati trovarono sulla spiaggia un’altra quindicina di insorti che li aspettavano.

   Erano così più di trecento, tra prigionieri politici e militari e alla loro testa c’era un uomo armato di pistola, con una divisa da Capitano del Regio esercito borbonico. In avanguardia c’erano circa una trentina di uomini più saldi ed efficienti che dovevano segnalare eventuali attacchi da parte dei gendarmi. I campi erano sterminati e la colonna sembrava essersi persa tra le spighe di grano ormai alto e pronto per la mietitura. Ma alla fine del percorso rimasero accerchiati dalle guardie regie, ci fu un primo scontro a fuoco in cui i rivoltosi ebbero delle perdite,  poi il gruppo, sfuggendo in qualche modo all’accerchiamento dell’esercito che era ormai inevitabile, cercò di raggiungere altri compagni che a loro volta avevano acceso alcuni focolai insurrezionali nelle zone vicine ma, arrivati in prossimità di un paese, la colonna, già decimata, fu annientata da numerosi colpi di fucileria dei gendarmi e dei contadini che li avevano individuati. Così caddero da eroi più di trecento insorti. Fra i primi ad essere colpiti fu il Capitano, che fino all’ultimo aveva tentato il disperato attacco.

Eran trecento, eran giovani e forti,

e sono morti! (1)

  Avendo ricordato quel fatto (o leggenda) nacque così nella mia mente l‘idea di assimilare le fantasie del sogno con quelle più concrete vicende che avevano fatto grande la nostra nazione, tanto più che avevamo già intitolato uno dei nostri Gap a quell’eroe che era caduto per la patria cent’anni prima, senza sapere però che entrambe avrebbero prefigurato quell’eccidio subito attuato dalle truppe tedesche alle porte della città all’indomani del nostro attacco alla colonna nemica.

   Non ci sono parole per descrivere  l’orrore che si dipinse sui nostri volti nell’apprendere le notizie di quel martirio, e che mai più sarebbe stato rimosso dai nostri cuori.

   A nulla sarebbero valsi i “distinguo” operati con l’andar del tempo fino ad oggi da me e dagli altri esecutori dell’attacco, né ci avrebbe sgravato la coscienza la  constatazione che eravamo in uno stato di guerra dove le crudeltà a volte si eguagliano. Ma i due fatti che ci riguardavano erano talmente incommensurabili da consentirci un’unica giustificazione e cioè quella che le rappresaglie, ancorché previste dalle leggi di guerra, non dovessero essere considerate come intimidazione per deviare gli scopi che sono insiti nella guerriglia urbana, ossia quelli di assaltare e ritirarsi, giocandosi la vita in ogni momento per ideali superiori, ma come delle vere e proprie stragi e i loro autori assassini.

(1) Si fa notare che il numero degli insorti caduti a Sanza all’alba del 1° Luglio 1857, secondo le cronache, spesso fallaci ma talvolta veritiere, sarebbe stato intorno ai  335.

(continua)

Di Maurizio Chiararia

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