Il lotto 285 – capitolo quarantuno

“La nascita ha un debito reciproco con la morte.”

Tertulliano

Una volta, erano i primi mesi dell’occupazione tedesca, avevo visitato, o meglio ero andato a conoscere il Gap che agiva in quella zona, quei caseggiati da dove proveniva la donna che poi sarebbe stata uccisa per il pane. Mi aveva colpito l’uniformità delle abitazioni, costituite da cubi o parallelepipedi bassi, come gli alloggi di una caserma.

Mi ero subito reso conto che si trattava di numerosi lotti, tutti delle stesse dimensioni, allineati l’uno all’altro con un piccolo piazzale sul davanti, come quelli che avevo frequentato in quel periodo nella vallata dove abitava ancora la mia compagna con la famiglia. Anche qui, in queste lunghissime file di case, tutte con una scala laterale che portava al ballatoio dell’ultimo piano, ed una più corta che portava all’ingresso principale, avevo immaginato che si potesse trovare il famoso Lotto 285, cosa più probabile data la grande estensione dell’insediamento.

Mi ero quindi avvicinato a uno dei primi agglomerati di case ed avevo cercato di vedere se sulla porta avessero o no un numero identificativo. La mente allora mi era andata a quel sogno iniziale, il principio di tutto il mio peregrinare, nel quale avevo intravisto un quartiere più ristretto di case allineate a semicerchio su due file che mi avrebbero consentito una facile ricerca del fatidico numero, diversamente da questa vastissima zona che si perdeva a vista d’occhio verso le colline. E poi quest’ultimo non era più un sogno ma una solida realtà. Cosi avevo in- cominciato a visitare palmo a palmo questi isolati, chiedendomi se fosse stato possibile trovare quello che cercavo. Intanto sulla vicina strada provinciale stavano transitando carri e camion nemici mentre alcuni gappisti del nucleo che ero andato a trovare si erano appostati proprio dietro la prima fila di case che si affacciavano sulla via.

Stavano studiando il modo per assaltare i mezzi nemici e si sporgevano ogni tanto da dietro i muri delle case con i fucili spianati ed altri addirittura dalle finestre di qualche abitazione, muniti di binocolo. Io che ero armato solo di una pistola non avrei certo potuto collaborare a quell’azione, così avevo cominciato ad aggirarmi fra i lotti nella convinzione che avrei trovato qualche numero di identificazione sui portoni. Di solito i numeri delle palazzine, anche in città, erano stampigliati con vernice nera sopra le porte. Solo le strade, fitte e lunghe, avevano agli angoli un palo rivestito di verde sormontato da una lastra di marmo con un’incisione dipinta di nero che ne indicava il nome, che quasi sempre richiamava quello di attività lavorative industriali od agricole.

Scorrendo rapidamente lo sguardo verso le facciate dei blocchi (o lotti) avevo letto solo numeri progressivi che non raggiungevano certo la cifra di cui avevo avuto la visione nel sogno e che era ricorsa più volte, da sveglio, davanti ai miei occhi. Deluso stavo per allontanarmi da quel quartiere per raggiungere i compagni del mio Gap, quando, nel percorrere la strada verso la città, tenendomi a distanza però dal passaggio dei carri nemici che ancora transitavano indisturbati – forse i compagni del nucleo avevano rinunciato all’assalto visto il numero rilevante degli automezzi e carri sferraglianti sull’asfalto – avevo posto l’attenzione su un grosso autotreno con sopra un vagone ferroviario logoro e traballante, con spesse grate che sporgevano dai fianchi, che non sembrava far parte del lungo convoglio dato che viaggiava alla fine di esso, distanziato di qualche metro.

Nel vedere scorrere accanto a me quell’insolito mezzo mi ero fissato sulla parte inferiore destra del vagone e avevo letto di sfuggita quello che doveva essere il numero attribuitogli dalle ferrovie per consentirne l’identificazione. Era una sigla composta da numeri e lettere che avevo stentato a credere fosse stata reale e non una visione, che diceva: BL285!
Strano – avevo pensato – che ricomparisse quel numero, anche se con iniziali diverse. Le lettere iniziali erano cambiate ma il numero rimaneva sempre lo stesso.

Cosa stava a significare? E poi che cosa aveva a che fare con i vagoni ferroviari, con le lenzuola delle brande di una camerata femminile od altro? E poi perché mi ostinavo a rintracciarlo come numero civico sui portoni delle case, come un marchio indelebile stampato sulla fronte, come una data scolpita su una tomba, come un segno distintivo su un’uniforme o un camice, come la sigla di fabbricazione di un’arma, come su una protesi dentaria, come su un letto d’ospedale, di una cella di una prigione, come un numero su una tessera o un documento, come targhetta su di un mobile d’ufficio, come un segnaposto di una poltrona di teatro, come una sigla sulla facciata di un’imbarcazione o un velivolo, come stampato sul tubolare di una bicicletta, su uno pneumatico, su una cassetta di sicurezza, se l’avessi trovato anche lì?

Quella visita e quelle considerazioni che avevo fatto allora, anche se avevano infittito ancora di più il mistero, mi sarebbero state utili in seguito, perlomeno perché mi avrebbero aiutato a scartare alcuni luoghi e fissarmi su quelli ancora possibili da trovare.

Ero solo, poggiato su un pilone che reggeva i cavi che partivano dalla centrale idroelettrica cui dovevo fare la guardia, a circa 700 metri d’altezza sul colle vicino alla capitale. Altri due compagni partigiani dovevano raggiungermi più tardi per darmi il cambio. La strada che conduceva alla centrale era scoscesa, non asfaltata e un occhio vigile da quella posizione favorevole avrebbe certamente visto il nemico avvicinarsi. In quella zona si combatteva per difendere le istallazioni rimaste dopo i bombardamenti di aprile ma spesso ci spingevamo nei boschi vicini dove sapevamo si trovavano le bande di guardie repubblicane che davano manforte ai pochi tedeschi rimasti per stanarle ed impedire loro di avvicinarsi ai paesi vicini dove sapevamo avrebbero potuto perpetrare feroci razzie e rappresaglie.

Era da poco passato mezzogiorno quando udii sopra la mia testa un cacciabombardiere tedesco che sorvolava la centrale lasciandola però indenne e puntava, in picchiata, verso la vallata sottostante sulle cui pendici si trovavano i paesini del circondario. Sapevo che alcuni nostri compagni si erano appostati in qualche casolare isolato, a pochi chilometri dal centro del paese. Tra di loro si trovava anche la mia compagna. Sentii prima un fracasso di colpi sparati da una mitragliatrice istallata sul velivolo nemico, poi un boato, poi un altro.

Le bombe lanciate da quell’aereo avevano colpito, squarciandone la parete esterna, un casolare. Vidi un fumo nero alzarsi dalle macerie, poi qualcuno che barcollando usciva di corsa dalla porta divelta della casa. Erano un uomo e una donna, ma non distinguevo da quella distanza le loro facce. Dal portamento di lui potevo arguire che fosse un militare ma la donna, che mi dava le spalle e sembrava accosciata, con il viso tra le mani, mi era sconosciuta. Ad un certo punto il militare crollò al suolo e lei, nel cercare di soccorrerlo, si voltò dalla mia parte e guardò verso l’alto, quasi cercasse qualcuno sul sopramonte. Aveva uno sguardo atterrito, implorante e d’un tratto mi sentii raggelare il cuore nel riconoscere in quella donna la mia compagna!

(continua)

di Maurizio Chiararia

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