Il lotto 285 – capitolo quarantadue

“Quanto misero il vantato potere dell’uomo quando la caduta di un solo masso di quelle montagne avrebbe distrutto facilmente migliaia di suoi simili riuniti nelle pianure sottostanti! A cosa mai servirebbe loro essere equipaggiati per la battaglia, armati con tutti gli ordigni di distruzione che l’inventiva umana ha forgiato?”

Ann Radcliffe – “The Italian, or the Confessional of the Black Penitents” (1997)
La nostra contraerea spazzava il cielo cercando di colpire il velivolo nemico, ma questo sparì, veloce com’era venuto, all’orizzonte. Quell’attacco, forse l’ultimo prima che le forze nemiche cominciassero a lasciare la regione per dirigersi al Nord, sembrava avesse fatto molti danni nelle zone limitrofe. Case sventrate, stalle abbattute dove gli animali superstiti vagavano per la campagna, le vie consolari con evidenti i segni delle bombe e le file di fuggiaschi, dei contadini che portavano i loro prodotti al mercato, brandelli dell’esercito, giacevano decimate ai bordi dei campi: I carretti che trasportavano masserizie e i veicoli militari erano in gran parte distrutti. Non era raro vedere anche truppe nemiche che abbandonavano la città nella direzione opposta, scortate dai carri e dai camion strapieni di prigionieri rastrellati nei luoghi di detenzione all’avanzare delle truppe alleate che stavano riconquistando i paesi a Sud della capitale.
Ma ritorniamo un po’ indietro. Mentre scendevo precipitosamente a valle per dare conforto ai feriti (speravo con tutto il cuore che la mia compagna fosse ancora indenne) venni fatto segno da una scarica di mitraglietta nemica che veniva dal fondo del bosco. Mi rifugiai dietro un masso che era precipitato dall’alto fino a mezza costa quando vidi il tedesco che aveva sparato. Era senza elmetto e con la giubba aperta che faceva intravedere una camicia sporca di sangue, segno evidente che era stato colpito dai partigiani che erano sbucati all’improvviso da dietro i cespugli. Fece qualche passo poi cadde in ginocchio e rotolò sulla proda scoscesa fino a quel masso dietro il quale mi ero nascosto. Era giovanissimo, con il volto coperto da un filo di barba, gli occhi spalancati in un ultimo attimo di vita, quasi si stesse chiedendo con meraviglia perché si trovasse lì, con il mitra spianato, isolato dal gruppo dei camerati che nel frattempo erano fuggiti. Mi sentii attratto da quel corpo ormai inerte, tesi la mano verso di lui in un irrazionale gesto di pietà ma subito dopo ripresi a discendere a lunghi passi dalla collina per raggiungere il casolare colpito.
Quando arrivai presi subito la mia compagna per le spalle, cercando di alzarla da quella posizione accosciata e con il volto annerito dall’esplosione ma riuscii solo a sollevarla di un poco che essa cadde di nuovo a terra svenuta. Era viva e non sembrava avesse lesioni sul corpo. Vicino a lei giaceva una sagoma rovesciata che stentai a riconoscere. Aveva la parte destra del volto maciullata, la mandibola quasi completamente fracassata, con il sangue che scorreva copioso dalle ferite. Respirava ancora e quindi cercai di metterlo supino. Si lamentava debolmente emettendo parole smozzicate da quello che gli rimaneva della bocca dalla quale fuoriuscivano fiotti di sangue e di saliva. Con raccapriccio riconobbi da quella faccia martoriata un mio compagno di lotta.
Intanto si era sparsa la voce che un ferito giaceva davanti a una casa colonica che era stata colpita e che era stata rifugio già di altri partigiani, che recentemente avevano lasciato quel luogo per salire in collina per stanate i reparti nemici che si nascondevano nel bosco. Avevano lasciato la mia compagna e un altro combattente a guardia di quella postazione in basso perché sarebbe stata poi ancora utilizzata come base per successivi attacchi. Era una piccola abitazione a due piani con una scala interna che portava alle stanze superiori. Lì si erano sistemati i due in attesa dell’avvicendamento. Quell’attacco aereo improvviso li aveva colti mentre sostavano al secondo piano. Mi aveva raccontato poi la mia compagna che avevano udito un forte boato e avevano sentito la casa tremare fin nelle fondamenta. Per l’esplosione si era formato un largo squarcio sul lato sinistro e subito dopo avevano visto crollare le pareti come per un terremoto, ma avevano avuto la perspicacia di fuggire subito ed erano riusciti a scendere gli ultimi gradini traballanti della scala senza danni ed uscire di corsa dalla porta principale. Avevano creduto ormai di essere in salvo sull’aia quando li aveva colti un crepitio di colpi sparati dalla mitragliatrice del velivolo nemico. Si erano gettati a terra riparandosi dietro un abbeveratoio lì vicino, schivando quindi la maggior parte dei proiettili che avevano sentito sibilare sulle loro teste quando il compagno venne colpito da uno di questi ed era stramazzato al suolo. Tutto questo era avvenuto nello spazio di pochi minuti e intanto l’aereo aveva ripreso quota dirigendosi verso Nord.
La mia compagna era rimasta atterrita, anche se non ferita, ed aveva rivolto lo sguardo verso di me che intanto stavo scendendo precipitosamente a valle. Raggiunta la casa l’avevo trovata appoggiata al bordo della fontana con la faccia annerita dallo scoppio, ma salva. Aveva fatto in tempo a guardarmi negli occhi e poi mi si era accasciata fra le braccia priva di sensi. Avevo dato subito l’allarme sparando un colpo di pistola in aria e agitando le braccia in alto per essere visto ed erano subito accorsi gli altri partigiani che stavano in quel momento rientrando. Il compagno, che per fortuna aveva ricevuto il colpo, già un po’ rallentato dalla distanza, non direttamente in pieno viso, (altrimenti gli sarebbe stato fatale), era stato subito soccorso e portato all’ospedale più vicino, dove si sarebbe ripreso dopo pochi giorni pur presentando ancora i segni indelebili della ferite. Lo ero andato a trovare qualche giorno dopo. Con tutti quei bendaggi era quasi irriconoscibile, gli avevo parlato brevemente, lui aveva mosso un po’ la bocca ma avevo notato, con costernazione, che non aveva ancora ripreso l’uso della parola. Avevo poi avvicinato l’orecchio alla sua bocca, cercando di captare qualche frase, e l’avevo sentito emettere, fra gli spasimi una breve frase: “Viva i Partigiani!”. Quella frase, scritta in rosso, risalta ancora sui muri calcinati della nostra città.

di Maurizio Chiararia

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