Il lotto 285 – Capitolo quarantasei

Lettere dall’Inferno

“E’ già tanto tempo che non Le scrivo, signora Milena, e anche oggi Le scrivo soltanto per caso.” “Scrivere lettere però significa denudarsi davanti ai fantasmi che stanno avidamente in agguato. Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto.”

Franz Kafka – Lettere a Milena

“Non è che sei giorni di tavolacci mi abbiano rinscemita, ma è che sono almeno 4 anni che non scrivo più e non so più usare di questo strano modo di esprimermi. Imparerò. Per ora accontentatevi.”

Marisa Musu

“Chi parla in questo momento non è altro che un fantasma.”

Piero Pinetti

Le lettere che scrivevo e spedivo non sempre raggiungevano la loro destinazione, e quelle in risposta erano talmente rade che quasi mi dimenticavo di chi le scriveva.
I dispacci e le comunicazioni militari, quelli sì, raggiungevano come il vento, attraverso l’etere, grazie alle radio da campo ed i fili del telegrafo, qualsiasi destinazione.
Ma c’era comunque una gran messe di missive personali, private che non arrivavano o arrivavano mesi dopo, lasciando in ambasce chi aspettava.notizie, al fronte o a casa.
La censura era talmente capillare che spesso la posta veniva scavalcata e si ricorreva a corrieri, staffette che portavano i messaggi nascosti sotto i vestiti da un posto all’altro, o gettati dai treni e dalle tradotte prima della partenza verso chissà quale destinazione, col pericolo di essere anch’essi intercettati.
L’amore è un fuoco. Una fiamma che nasce da una scintilla e si perpetua finché è alimentata.
L’alimento principale di questa fiamma – pensavo – è costituito dalle parole.
Nei momenti di lontananza gli amanti scrivono lettere che si dicono, appunto, d’amore, ma non come semplice strumento di comunicazione, bensì come unico alimento per tener desto il fuoco, che altrimenti si consumerebbe, e nessuno ha voglia di parlare d’amore se non per qualcuno.
Le parole d’amore non si scrivono di getto, vanno pensate, gli stessi pensieri d’amore vanno ben ponderati prima che si tramutino in parole.
La persona che amo mi faceva notare che le parole sono armi che vanno maneggiate con cura. Talvolta possono essere come un coltello arroventato che entra nella carne, sensazione che si prova quando si riceve, oppure si dice (anche chi dice prova lo stesso dolore, se ama veramente) una parola che fa soffrire.
La poesia è fatta di parole ma difficilmente le parole sono poesia. Chi scrive una poesia d’amore si espone ad un rischio enorme, quello di non essere compreso dall’amante, o di essere deriso per lo stile troppo pomposo o troppo sintetico, in poche parole di essere frainteso.
Nelle poesie le parole sono dosate secondo criteri estetici, di suono, appunto come la musica, e non sempre questi corrispondono ai sentimenti di chi ama, che in genere non scrive poesie.
Meglio scrivere lettere per comunicare l’amore, anche se le lettere sono necessariamente legate alla lontananza.
La lontananza esprime, secondo me, un grande sentimento d’amore, e possiede in sé una grande idea, il vento che spegne tutti i fuochi piccoli e accende quelli grandi.
“Dimmi che mi ami”, scrive chi ama. “Scrivimi!”, risponde chi è amato, “Le tue parole mi scaldano il cuore”.
Dopo queste riflessioni volli riprendere il racconto di questa nuova fase della mia vita dall’inizio, lasciandomi dietro tutti i tormenti che seguitavano, mio malgrado, ad affliggermi ancora. L’unica cosa che mi teneva ben saldo nei miei propositi di combattente era il pensiero dei compagni che avevo lasciato a lottare in città e la nostalgia, che si faceva sempre più intensa, delle poche ore che avevo trascorso insieme alla mia compagna, sia nell’azione sia nell’intimo di un’alcova segreta, a condividere attimi di quell’intenso amore che ancora mi sorreggeva e mi spingeva a fantasticare sul suo futuro sviluppo. Le ombre con cui ormai ero abituato a convivere si dissipavano come d’incanto al solo ricordo di quell’amica, strenua camminatrice, sprezzante del pericolo ed allo stesso così dolce, timida dispensatrice di effusioni che io, malgrado avessi maggiore esperienza, e benché ne avessi un forte desiderio, non riuscivo a contraccambiare.
Il treno aveva varcato la linea gotica ed il fiume senza intoppi e procedeva, sferragliando e sbuffando, verso nord. Le stazioni nelle quali si fermava erano rade anche perché i passeggeri che salivano o scendevano erano pochi e quei pochi che il mio vagone ospitava erano evidentemente diretti verso un’altra regione più a nord-est, vicino alle grandi montagne. Non so come, in un tratto del viaggio che mi era sconosciuto, il treno si fermò, forse per fare rifornimento, ma, affacciandomi al finestrino vidi la banchina deserta e nessuno che lasciava il convoglio. Ero indeciso sul da farsi quando sentii che il treno stava per ripartire, e, come spinto da una forza sconosciuta, volli comunque prendere in fretta il mio bagaglio, spalancare l’ultima portiera, dondolarmi sul predellino, lasciarmi cadere nel vuoto approdando sulla banchina.
Vedendo che ero l’unico passeggero che scendeva da quell’ultimo vagone, e in condizioni così precarie, il casellante mi corse incontro con una lanterna che emetteva una luce fioca come un faro in lontananza su una scogliera. Quando il treno riprese la sua corsa vidi che non aveva fatto caso né alla provenienza né alla destinazione del convoglio che gli sfilava davanti, e neanch’io ebbi alcuna intenzione di fare la benché minima menzione a riguardo. Ero talmente stanco che non riuscivo a reggere in mano la sacca militare che conteneva le mie cose così lui si prestò sollecito a sorreggermi e a farmi sedere sull’unica panchina che esisteva sulla piattaforma della stazione.
Mi trovavo ora a casa della Rosetta, che mi stava preparando una gustosa minestra nel paiolo che pendeva sul fuoco alimentato a legna. Non c’era luce elettrica perché si era vicini al coprifuoco e sembrava ironico che proprio il fuoco ancora ardesse vivo in quella cucina. L’ambiente era ristretto, conteneva un tavolo, quattro sedie, una credenza per le provviste e una catasta di ceppi accanto alla stufa di maiolica. La Rosetta era la moglie del casellante che mi aveva aiutato a scendere dal treno appena arrivato in quella stazioncina persa nel verde della campagna.
Sistemando il mio bagaglio avevo notato una ragazzetta intenta a smuovere le braci accanto al fuoco per tenerlo acceso. Era accosciata e mi dava le spalle ma potei comunque vedere che aveva una folta capigliatura nera ed un corpo già fatto che la faceva apparire più grande della sua età, che doveva essere intorno ai quattordici-quindici anni. Vestiva un lungo vestito scuro, sfrangiato alle estremità ed un fazzoletto colorato al collo che la faceva apparire più una zingara che una giovane inserviente, quale ella, probabilmente, era. Al mio entrare aveva alzato gli occhi su di me, con le ciglia socchiuse, quasi si stesse interrogando sulla mia presenza in quel luogo isolato. Il suo sguardo era cupo, il suo fare esitante, come se volesse nascondere qualche segreto che io non riuscivo a decifrare. A un certo punto si alzò e mi venne incontro con un passo veloce, mi tese una mano e sentii con mia grande sorpresa che stringeva un biglietto arrotolato che mi passò guardandosi intorno furtivamente. Sospettai quindi che fosse una staffetta partigiana che aveva avuto l’incarico di recarmi un messaggio, cosa che poco dopo constatai essere vera. Poi sgattaiolò via e si mise nuovamente accanto al focolaio a rimestare i ceppi che ardevano, emanando scintille che si propagavano nella cucina scoppiettando. Sul biglietto c’era scritta la destinazione che avrei dovuto raggiungere e l’itinerario da seguire per evitare le linee nemiche.
Intanto i miei ospiti mi aveva preparato il letto per la notte ed io non aspettavo altro che sistemarmici e cadere in un sonno profondo.
Quando la mattina dopo mi alzai vidi che la staffetta era partita per chissà dove. Mi rammaricai di non aver potuto scambiarci qualche parola ma mi sovvenne che, come i nostri istruttori ci avevano insegnato, apparire e scomparire in un lampo era la prerogativa essenziale dei cospiratori.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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