Il lotto 285 – capitolo quarantasette

La moglie del casellante

“Quanto a me, direi che se in natura esistono certe cose orrende e insospettate, il fatto d’essere insospettate non le rende soprannaturali e che è proprio il fatto d’essere naturali, anzi, a renderle più orrende…”

Arthur Machen – La storia del sigillo nero

     Non presi subito congedo da quella casa di campagna, da quella coppia con cui avevo instaurato una certa confidenza in quei giorni di mia forzata (non so fino a che punto, visti gli sviluppi che quella sosta avrebbe comportato in seguito) permanenza. La signora Rosetta era sempre gentile con me, mi preparava i pasti e mi rifaceva il letto con solerzia mentre il marito era fuori, preso dal suo lavoro alla stazione e non era quasi mai a casa. Scoprii dopo che, pur essendo una coppia ancora giovane, (lui doveva essere sui quarantacinque anni e lei, un po’ più giovane, intorno ai trenta), non avevano avuto figli, e mi domandavo se ci fosse una ragione specifica per quella mancanza di procreazione. Venni quindi a sapere dalle confidenze spontanee della stessa Rosetta che il marito era rimasto ferito in guerra (la prima) da un colpo di baionetta al basso ventre per cui era rimasto inabile alla continuazione della specie. Aveva avuto per questa sua infermità una piccola pensione di guerra e quel posto di capostazione.

    La Rosetta era ancora una bella donna, dalle forme prosperose e sembrava soffrire di quella mancanza di maternità anche se non lo dava a vedere. Sul comò del soggiorno facevano spicco due fotografie, incorniciate, che rappresentavano due bambini, forse figli di qualche sorella, e un vaso di fiori appassiti, quasi a voler testimoniare quel suo desiderio frustrato e che non sarebbe più stato possibile esaudire durante il suo matrimonio.

   Mentre svolgeva le faccende di casa era sempre lì a scrutarmi con i suoi occhi tristi e mi riempiva di attenzioni che a volte andavano oltre il dovuto. Io facevo finta di non accorgermi di quelle premure non richieste ma dentro di me sentivo anch’io una certa attrazione per quella giovane donna, pur cercando  in tutti i modi di non dare adito a fraintendimenti che avrebbero potuto incrinare la nostra frequentazione.

   Sapevo, per i miei occhi azzurri ed il fisico slanciato, di essere un tipo piacevole che poteva destare un qualche interesse nelle rappresentanti del sesso femminile ma non me ne facevo un vanto, anzi cercavo in tutti i modi di sminuirmi ai loro occhi, forse per una sorta di timidezza che però contrastava con la mia intraprendenza e baldanza. Ero portato per natura a cimentarmi in cose ben più scabrose di quelle riguardanti l’affascinare una donna e sapevo gettarmi nella mischia con coraggio, soprattutto in quelle occasioni che riguardavano l’onore e il bene del prossimo. Nonostante quel sogno della prigione che avevo fatto, che costituiva per me ancora quasi un monito, rivelando la mia inadeguatezza ad affrontare il fascino femminile, non mi sentivo del tutto insensibile a quello e quindi, pur prendendo le dovute distanze dalle avancesdella mia ospite e sapendola sposa, anche se insoddisfatta, di quel marito, facevo intravedere che ero disponibile ad allacciare una qualche relazione, se pur precaria e momentanea, con lei.

   Ci furono momenti di vera e propria tentazione quando lei veniva senza bussare nella mia stanza al mattino facendo frusciare la gonna e sporgendosi verso di me, che ancora giacevo nel letto mezzo insonnolito, per chiedermi come avessi dormito e cosa volessi per colazione, ma tutto si limitava a sguardi più o meno invitanti da parte sua ed un conseguente fremito di desiderio da parte mia. Poi sgusciava dalla stanza quasi fosse stata richiamata da qualche altro dovere casalingo.

   Una mattina mi alzai di buon ora e decisi che era ora di intraprendere il viaggio secondo l’itinerario che mi era stato assegnato. Cosi misi le mie poche cose nella sacca militare, mi vestii in borghese ma con la pistola al  mio fianco e scesi nel soggiorno dove la Rosetta stava preparando la colazione. Aveva un vestito leggero, a fiori, che la faceva sembrare più una ragazzina che una donna fatta e questo le donava un fascino particolare che mi ricordava quello delle giovani combattenti che avevo avuto accanto in città, sempre modestamente vestite per non dare adito a sospetti da parte delle spie nemiche. Ma la sua apparente semplicità nel vestire non certo sminuiva il suo fascino. Le gambe lunghe e snelle sbucavano dalla gonna corta come serpi in un fosso, le sue braccia nude e ben tornite, muovendosi ai ritmi quotidiani di una perfetta casalinga, mostravano una forza e una delicatezza insieme certo inusuale in una persona abituata solo alle faccende domestiche.  Le sue mani erano lisce e ben curate ed i suoi occhi neri (quegli occhi!) mi trafiggevano come bagliori di fuoco. Aveva raccolto i capelli in una treccia che le pendeva da un lato, così mi avvicinai, la cinsi alla vita mentre lei era ancora voltata verso il lavandino e la baciai sulla nuca. Lei però si voltò e, guardandomi negli occhi e ponendomi un dito indice sulla bocca, mi fece intendere che con quel gesto si rendeva vano ogni mio ulteriore tentativo di contatto. Si staccò quindi da me e si rivolse verso il lavabo, continuando indifferente ad accudire alla cucina, facendo volteggiare sicure le braccia tra la tinozza e lo scolapiatti. Poi, mentre io mi ricomponevo da quell’assalto, la vidi salire le scale, scendendo poco dopo portando il mio zaino e la mia giubba che mi consegnò senza un fiato.

Io non feci altro che prendere la mia roba e, quasi stordito, mi accinsi a varcare la soglia di quella dimora accogliente ma lei, in un ultimo slancio d’affetto, mi abbracciò forte e mi disse:

   “Stai attento e vienici a trovare ogni tanto. Noi siamo sempre qui e nessuna guerra, nessun crucco, nessun fascista può spostarci da qui. Sono partigiana anch’io ma il mio compito adesso è quello di dar da mangiare alle galline e a coltivare qualche ortaggio per non morire di fame. E quello di mio marito è quello di far arrivare e partire i treni in orario. Nient’altro.” Quel “nient’altro” lo disse abbassando un poco i suoi begli occhi per nascondere le lacrime che cominciavano a imperlarle le guance. Si staccò poi da me, rientrò in casa, e chiuse la porta.

   Seppi poi  nel dopoguerra che durante un processo istituito per indagare sulle violenze perpetrate da elementi della Guardia Nazionale Repubblicana e dai Reparti Arditi Ufficiali su civili durante le operazioni  di caccia ai partigiani ci fu la testimonianza di una delle vittime che, in seguito a una delazione, era stata accusata di aver ospitato dei “ribelli”. Questo fu il suo racconto, così sconvolgente che il giudice aveva deciso di celebrare il processo a porte chiuse:

   “Mi denudarono completamente e mi percossero ripetutamente con nerbate, mi introdussero nella vagina una bottiglia o un proiettile fino a farne uscire del sangue, mentre altri mi colpivano con gli scudisci al seno, e in tutte le parti del corpo. Non contenti mi bruciarono i peli del pube, mi praticarono ripetute iniezioni di benzina, poi vollero ricongiungersi violentemente con me, oppure non riuscendovi, mi percossero con un cinturone sull’addome, mi strapparono ciocche di capelli, mi rovesciarono le unghie degli alluci con una pinza, infine mi lacerarono l’imene, e mi obbligarono a compiere atti di masturbazione e inghiottire lo sperma(…).”

   Quella testimone, di nome Rosetta, era la moglie del casellante che mi aveva ospitato, il quale scampò fortunatamente alle torture perché ferito di guerra e perché era stato considerato comunque un funzionario al servizio dello Stato.

(continua)

di Maurizio Chiararia

 

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