Il lotto 285 – capitolo cinquantuno

La Grande Fuga 1

“Scrivere significa essere in relazione con ciò di cui non ci si può ricordare.”

Maurice Blanchot

  Ma come sarebbe apparsa agli occhi di un bambino che passava di lì quella carneficina? Quale oltraggio avrebbero subito i suoi sensi infantili, la sua incoscienza delle cose del mondo, lo stupore misto all’orrore? Come si sarebbe stretto alle mani della madre e abbracciato le sue ginocchia nascondendo il viso tra le pieghe della gonna? Forse avrebbe descritto più tardi quello scempio, quando avesse preso coscienza delle brutture causate dalla guerra, così:

   “C’erano molti corpi gettati sul marciapiede, contro lo steccato, qualche manifesto di teatro, cartelli con su scritto: “Banditi!”,  “Banditi catturati con le armi in pugno!”. Attorno la gente muta, il sole caldo. Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia, calze sporche. Era una cosa inaudita: uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati.”

   Ero nella città più grande del Settentrione, la città della grande borghesia industriale, degli operai, degli immigrati dal Sud, la città rutilante di bar all’aperto, di piazze gremite di gente, dell’austero Duomo gotico che stonava con le costruzioni rinascimentali e settecentesche attorno, delle gallerie piene di cimeli risalenti ai tempi passati, della città delle quattro giornate risorgimentali, spagnola, francese, austriaca, la città della peste e delle auguste presenze di vescovi e santi, della miseria e della fame, dell’oppressione nazista che ancora permaneva nonostante le forze liberatrici fossero già oltre il fiume e si stessero dirigendo verso Nord, della resistenza partigiana che difendeva le fabbriche con scioperi ed azioni di  disturbo concentrate sulle ultime postazioni nemiche, con i binari pieni di vagoni carichi di deportati, di spose di soldati ancora in guerra o arruolati nelle forze della Repubblica Sociale che si era da poco costituita sul vicino lago, di gerarchi fascisti nascosti in case compiacenti, di bimbi che giocavano nelle strade costeggiate da cumuli di neve che a quegli occhi infantili dovevano sembrare montagne invalicabili, ed io rappresentavo niente più che una molecola in quel continuo “mordi e fuggi” dei partigiani, anche perché mi trovavo ancora una volta ristretto in carcere, il carcere  intitolato a quel Santo che avrebbe dovuto, secoli prima, difendere le mura dagli assalti dei barbari.

   Provenivo da un altro carcere ancora più a nord, dove ero stato rinchiuso per tre settimane. Mi avevano catturato in quella locanda dove avevo passato la notte  durante il mio primo viaggio con la Rosetta. Avevo visto  alla finestra un’ombra stagliarsi oltre i vetri e poi avevo udito la porta spalancarsi ed entrare due uomini in divisa con aria minacciosa. Ci avevano puntato addosso le armi e ci avevano tenuto sotto tiro finché uno di loro si era avvicinato e ci aveva richiesto, con fare circospetto, i documenti. Io ero indietreggiato, tentando di fuggire, ma mi ero trovato in un vestibolo senza via d’uscita dove ero stato prelevato senza tanti complimenti dai militi e trascinato fuori. La Rosetta, nel frattempo, era riuscita a fuggire.

   Nella nuova prigione stavolta mi ero trovato in compagnia di un francese, forse anche lui partigiano, anche se mi ero chiesto cosa ci facesse un cospiratore francese in Italia, per di più prigioniero. Io avevo contratto la scabbia e così, appena arrivato,  ero stato disinfestato con acqua bollente, cosa che mi era sembrata propizia perché erano vari giorni che non mi lavavo.  Mi ero reso conto subito che quello era un vero carcere, con alte mura con filo spinato ed un angusto cortile dove, a centinaia, nell’ora d’aria eravamo costretti a metterci in fila per muovere un po’ le gambe. Ricordo ancora il clangore dei manganelli strusciati con forza sulle sbarre.

    Ero stato lì forse due, tre settimane, poi era venuto l’ordine di trasferirci al carcere dove adesso mi trovavo. Alcuni di noi erano stati più sfortunati ed erano stati trasferiti nei campi in Germania. Una pattuglia di militi ci aveva accompagnato in treno in città ma io mi ero accorto che avevo fatto un errore: avevo chiesto ai militi di riavere il mio orologio che avevo dovuto consegnare in precedenza, ma quando eravamo arrivati al nuovo carcere cittadino, questo era nelle mani del vicecomandante della Milizia che ci scortava, chiamato “il francese”, che me lo aveva rubato. Avevo saputo così che il prigioniero che avevo avuto accanto nella detenzione non era un partigiano ma un informatore della polizia.

   Durante il tragitto, insieme ad un altro compagno, questa volta credibile, ero riuscito a liberare una mano dalle manette, avevo chiesto di andare in bagno ed avevo tentato di gettarmi dal finestrino, ma senza riuscirci. Allora avevo rimesso le mani nelle manette ed ero tornato al mio posto. Arrivati in città noi ed i militi di scorta avevamo preso  un autobus. Anche lì avevo pensato a una fuga, ma non era stato facile perché le guardie erano in numero preponderante e, per di più, armate. Dopo questi tentativi non riusciti, che avevano rivelato la mia determinazione e il mio coraggio nel tentare le prime fughe, non avrei aspettato altro che finire in una nuova cella dove avrei potuto architettare nuove e più efficaci evasioni.

   Erano i primi di dicembre. La città era coperta da una coltre di neve tanto spessa che i carri, le auto ed i tram stentavano ad avanzare, presi nella morsa di quel gelido manto. Arrivati che fummo, ci misero ciascuno in una cella con due brandine. Di notte si spalancava la porta con grande cigolìo di catene, entravano degli energumeni con delle mazze di ferro, e verificavano se le sbarre della finestra fossero integre. A Natale venne un prete e  nel salone al pian terreno fu celebrata la messa che noi ci mettemmo a turno a sentire, sporgendo le teste dagli spioncini. Due volte al giorno, avevamo l’ora d’aria nel cortile, diviso in spicchi separati da un muro, dove ci muovevamo e, per quanto possibile, parlavamo. Qui conobbi un gruppetto di tre biscazzieri, due francesi e un italiano, che avevano strane storie da raccontare. Io davo loro dello zucchero, che usavo per immagazzinare  energia, ed in cambio loro mi davano dei soldi. Un giorno, durante l’ora d’aria, ebbi un malore, caddi per terra, forse per un attacco di anemia. Mi trasportarono in infermeria dove il medico mi trattenne. Gli feci una buona impressione, lui capì che ero un bravo ragazzo e mi tenne lì un po’ di tempo. Poi mi utilizzò per andare a vuotare i vasi dei detenuti, compito che mi dava la possibilità di parlare con altri prigionieri. Mi fece una strana impressione vedere, chiusi tutti in una stanza, gli ebrei, parecchie decine, tra anziani, donne, bambini. Anche se mi guardavano con sospetto, potei comunicare con loro, dare loro qualche biscotto e consolarli, rassicurandoli sulla loro liberazione.  Venni poi  a sapere che tutte le formazioni partigiane si erano disciolte, che tutti i territori da noi occupati erano stati ripresi. C’era uno sbandamento generale. In un primo momento ebbi un crollo, l’unico cedimento che abbia mai avuto. Gli alleati erano arrivati al di là del grande fiume, ma si erano fermati. Così poi continuai a chiedere e seppi che la Guardia Nazionale aveva emesso dei bandi che offrivano cibo, sigarette e soldi a chi si arruolava nella Repubblica Sociale. Solo una piccola percentuale di cittadini aveva aderito. Scoprii poi che i partigiani non si erano arresi, che pian piano riprendevano le loro  posizioni e, se pur sbandati, non si arrendevano. Allora capii che la situazione non era disperata e che ce l’avevamo fatta.  Questa convinzione mi rendeva ancor più determinato a fuggire per raggiungere i miei compagni.

(continua)

di Maurizio Chiararia

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