Renato Scalia, consulente della Commissione Antimafia: disattenzione, sottovalutazione e negazione rendono le mafie invincibili

Renato Scalia, sessantenne, romano di nascita e fiorentino d’adozione. Per 20 anni è stato alla Digos e sette alla Dia. Attualmente è consulente della Commissione parlamentare antimafia.

La mafia oggi la combattiamo a sufficienza?
Per rispondere a questa domanda e, presumo anche alle altre, servirebbe sicuramente più spazio e tempo. Cercherò di essere sintetico.  La combattiamo a sufficienza? No! Viene tutto delegato a magistratura e Forze di polizia, mentre sarebbe necessaria una maggiore attenzione da parte di tutti, nessuno escluso. La classe politica è assolutamente disattenta e, in molti casi, sottovaluta o addirittura esclude il fenomeno. In certi casi arriva pure a tentare di distruggere tutte quelle norme scritte con il sangue di tutte le vittime di mafia. Anche i cittadini non sono affatto consapevoli della pervasività delle mafie nel tessuto sociale, probabilmente anche perché è un argomento a cui i media nazionali dedicano poco spazio. Per fare un paragone con quanto sta avvenendo in questi giorni: se tutti, nessuno escluso, avessero posto la stessa attenzione al “mafiavirus”, nel nostro Paese la pandemia più pericolosa sarebbe stata già debellata da tempo.

La tua esperienza alla Dia di Firenze ti ha fatto occupare delle interdittive. Ci spieghi cosa sono e perché sono utili?
L’azione antimafia, considerata l’attuale predisposizione delle organizzazioni criminali a riciclare i proventi dei traffici illeciti in attività economiche lecite, dovrebbe sempre viaggiare sul doppio binario: penale e amministrativo. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, la competenza è dei Prefetti.
Le mafie fanno man bassa di appalti pubblici. Abbiamo visto che anche nella ricostruzione del ponte a Genova, sono state individuate società legate alla ‘ndrangheta. Il provvedimento amministrativo del Prefetto ha una durata di un anno. La società colpita da interdittiva antimafia dovrebbe essere immediatamente estromessa dall’appalto e non dovrebbe più lavorare nel pubblico. Uso il condizionale perché non sempre ciò avviene. Alcune volte, le Stazioni appaltanti (pubblica amministrazione che affida appalti pubblici) nonostante l’interdittiva, procrastinano la decisione, perdendo inutilmente del tempo, perché temono i ricorsi delle società colpite dal provvedimento ai tribunali amministrativi. Poi c’è sempre chi si preoccupa del blocco dei lavori. Insomma, molti amministratori pubblici non vedono di buon occhio le interdittive antimafia. Non si vuole comprendere l’importanza del contrasto alle infiltrazioni delle organizzazioni criminali negli appalti pubblici, che continuano a essere un buco nero perché i controlli sono assolutamente insufficienti. E anche in questo caso i danni sono enormi: gli imprenditori onesti sono esclusi dagli appalti; nei cantieri dove lavorano le imprese infiltrate non sono mai rispettate le norme della sicurezza nei luoghi di lavoro e l’accesso ai sindacati è addirittura impedito; nella maggior parte dei casi sono utilizzati materiali scadenti e quindi le costruzioni sono a rischio crollo; la criminalità organizzata, oltre ad ampliare il controllo del territorio, crea consenso sociale. Il messaggio che passa, in questo caso, infatti è: la mafia offre lavoro, mentre lo Stato lo toglie con le interdittive.

Oggi più che mai ci troviamo a dover affrontare numerosi scenari che favoriscono il riciclaggio. Cosa ne pensi?
Le mafie si evolvono costantemente e in questo momento puntano soprattutto al reinvestimento del denaro sporco. Non c’è congiuntura economica negativa che possa creare un danno agli affari del crimine organizzato; anzi gli spazi per riciclare i profitti illeciti si ampliano. Ho già parlato degli appalti pubblici. Basta fare un giro in qualsiasi centro cittadino e non solo, per rendersi conto che molte attività commerciali sono in mano alla mafia.
Basterebbe fare due conti sui costi di affitto, ristrutturazione del locale, gestione e tutto il resto per comprendere che, in molti casi, l’investimento è assai rilevante e sproporzionato. Solo chi ha denaro da buttare può permetterselo. C’è da tener presente, poi, che i maggiori investimenti, da tempo, la mafia li fa Oltralpe dove le normative antimafia sono quasi del tutto inesistenti.

Il porto di Livorno ha visto un sequestro da oltre 3 tonnellate. Le mafie se usano un porto hanno dentro una base?
E’ l’ennesima conferma che il Porto di Livorno è un luogo strategico per le rotte internazionali del narcotraffico. Un sequestro di cocaina di questa portata non era mai stato eseguito in Italia. Visto gli ingenti quantitativi di droga, stiamo parlando di traffici che riguardano importanti organizzazioni criminali, in primis la ‘ndrangheta. Se teniamo presente che, anche lo scorso anno, il porto ove è stata sequestrata la maggiore quantità di cocaina è stato quello di Livorno (oltre 900 Kg), seguito da Genova, Gioia Tauro (RC), Civitavecchia e da Porto Torres, non possiamo escludere che la mafia possa in parte controllare il porto toscano, altrimenti non metterebbe a rischio il proprio business. A sottolineare questo aspetto non è, come solitamente avviene, solo la Fondazione Caponnetto ma anche la DCSA, Direzione centrale per i servizi antidroga, che nell’ultima relazione al Parlamento sottolinea che: “I maggiori sequestri registrati nei porti di Genova e Livorno, rispetto a quello di Gioia Tauro (RC), dimostrano che l’individuazione del porto prescinde dall’area criminale di interesse e dal territorio controllato dall’organizzazione, ma avviene sulla base delle aderenze che la stessa può garantirsi, anche all’estero, nonché delle capacità logistiche, di controllo e gestione di società di trasporto merci, non solo per via marittima”.
Proprio per questo, credo sia assolutamente necessario agire rapidamente, cercando di mettere in campo ogni possibile sforzo, da parte di tutti.

di Salvatore Calleri

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