Il lotto 285 – capitolo cinquantadue

La Grande Fuga 2

“Questa è una storia vera, comprese la parti che non lo sono.”

Wu Ming 2 – Antar Mohamed – Timira

    Una sera, nell’andare a coricarmi nella mia brandina,  in una cella che dividevo con un altro compagno, mi vennero in mente i numerosi tentativi che avevo compiuto alla ricerca di quella chimera racchiusa nella fatidica sigla: Il Lotto 285. Ogni volta che ero stato vicino ad un caseggiato, a una linea ferroviaria, persino nei corridoi di qualche luogo di detenzione avevo cercato in tutti i modi di identificare quella semplice  scritta su un foglietto che mi era apparso nel sogno iniziale. Mi chiedevo se col  tempo avrei cercato e trovato il modo di dipanare quella matassa, quel groviglio di ipotesi che si affollavano nella mia mente e che riguardavano  la ricerca di quel luogo sconosciuto, di  quella sigla che di volta in volta cambiava di senso fino a rendersi irraggiungibile.

   Quel Lotto 285 appariva e spariva come un pesce nell’acqua che ora affiora ora sprofonda negli abissi, o come i pensieri che vanno e vengono nella mente. Era anche una questione di orientamento, come chi osserva la stella polare per definire una direzione, ed io, recluso e senza punti di riferimento, mi ero preso la briga di non perdere la bussola, come si dice, sia materialmente sia simbolicamente.

   Avevo infatti con me, e nessun me lo avrebbe potuto togliere, quello strumento, nascosto all’intero della mia giacca, che mi era stato consegnato nella mia prima spedizione, dopo essere stato, dopo un breve corso di addestramento nell’Italia meridionale, paracadutato oltre le linee nemiche per una missione. Ero disceso senza danni in un prato vicino ad un corso  d’acqua e mi stavo liberando del paracadute quando mi era venuto alla mente quel piccolo oggetto. Lo avevo preso e facendo girare la lancetta che come per incanto si era mossa, l’avevo puntata verso nord.

   Il carcere era così suddiviso, da sinistra a destra: Laboratorio, Ufficio Cappellano, Cappella, Centralino sussidiario. Canile, Allevamento cani poliziotto. Recinto per l’aria ai detenuti. 3° Raggio (144 celle e 16 cameroni).

Infermeria sussidiaria. Nel sotterraneo Cinema e Teatro. 4° Raggio (132 celle, 22 cameroni). Reparto T.B.C. Reparto chirurgia uomini. Cucina ospedaliera. Reparto  medicina. Sale operatorie ambulatoriali. Caldaia per il riscaldamento e Reparto disinfezione ospedaliero. Celle d’isolamento.

Salette per i colloqui con gli avvocati e per interrogatori con i giudici. Stanze di perquisizione. Barbiere. Ingresso per la visita dei parenti e accettazione pacchi. 2° Raggio (143 celle, 22 cameroni). Laboratori. Ufficio posta. Ufficio banca. 5° Raggio (144 celle, 22 cameroni). Reparto lavorazione e minuterie elettriche 1° Raggio (88 celle, 18 cameroni. 6° Raggio (143 celle, 22 cameroni). Stanzone dei colloqui. Panificio. Cucine e magazzino vettovaglie. Aule scolastiche avviamento elementari. Cappella e camera mortuaria. Corpo di guardia, armeria, Ufficio Comando e Matricola, Ufficio perquisizioni, deposito indumenti. Androne (qui c’era la sentinella, la porta di ferro veniva aperta da una sentinella armata). Piccola cappella, alloggio suore, asilo d’infanzia, cameroni donne, reparto chirurgia donne,reparto medicina donne, reparto lavorazione donne. Circolo e mensa sottufficiali e agenti di custodia. Alloggio Ispettore Generale, Alloggio vicedirettore, Alloggio cappellano, alloggi funzionari del carcere, Impresa approvvigionamenti, Uffici della direzione, centralino telefonico.

   In quel vastissimo luogo di detenzione fummo ben presto adibiti alle pulizie nell’Ufficio Politico Investigativo, dove venivano fatti gli interrogatori e sbrigate dai nazi-fascisti le varie formalità burocratiche. Come tutte le altre volte, appena entrato in carcere, il mio primo pensiero era come fuggire. Improvvisamente, approfittando di in un momento di confusione, io e il mio compagno, ci gettammo dalla finestra che dava sul fronte del carcere, davanti al quale c’era una sentinella che, fortunatamente, non ci vide. Dall’alto, sentito il trambusto, cominciarono a sparare. Evitate le possibili fratture durante la caduta, ci togliemmo la palandrana che indossavamo, montammo su un tram, entrammo in una latteria per rifocillarsi, dove scoprii di essere ferito, e ci demmo un appuntamento a cui io non andai perché non sapevo chi fosse il mio compagno di fuga. Sopravvenuta la sera, non avendo né denaro né documenti e non conoscendo altri recapiti, fui costretto a rifugiarmi tra le macerie di alcuni palazzi completamente diroccati, fuori porta, una zona fortemente bombardata. Quell’inverno fu rigidissimo ed io al mattino uscivo tremante dalle macerie tutto intirizzito, incapace di riprendere i movimenti. Durante il giorno vagavo nella città in posti appartati, chiese, giardini e quartieri non frequentati, per poi raggiungere la sera il mio quartierino di macerie e calcinacci. Il pomeriggio andavo a casa di una modista che mi era stata segnalata e presso la quale avrei trovato rifugio, ma lei invariabilmente mi ingiungeva di stare lontano, per il pericolo di soffiate o di rastrellamenti. Però ad una certo punto mi disse che era venuto per me l’ordine di cercare rifugio nella casa di una famiglia operaia alla periferia, dove sarei stato alloggiato ed assistito.

    Giunsi all’indirizzo a me segnalato e fui amorevolmente rifocillato con una minestra calda e messo in un letto riscaldato. La mattina seguente ero completamente impossibilitato a muovermi tanto il freddo mi aveva intirizzito, e fui costretto a letto per alcuni giorni. La notte dell’Epifania c’era stata in città una violenta nevicata. Se fossi stato ancora sotto le macerie sarei certamente morto assiderato. Una volta rinfrancato, rifocillato, rivestito con un impermeabile, una sciarpa e munito di una nuova carta d’identità….

di Maurizio Chiararia

(continua)

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