L’invisibile botola tra il fango e il cielo

C’è una botola. Invisibile. Assurdamente inchiavardata. Tra il fango e il cielo della politica. Inaccessibile. Solo alle donne, però. È quella che conduce alle più alte cariche dello Stato italiano: Presidenza della Repubblica e Presidenza del Consiglio. Nel gergo comune tale ferrea occlusione ha finito per prendere un nome: Il soffitto di cristallo. E questo è il titolo del libro di cui parliamo. Autore: Gianni Perrelli. Soffitto, ceiling in inglese, su, al top. Cristallo, vetro, ceiling glass, perché c’è, è stolidamente contundente, ma non si vede, è trasparente. Per mera e mega ipocrisia sociale, istituzionale. L’autore prova a immaginare, anzi, a tramare, a romanzare come e da chi possa essere scardinato il maleodorante tombino che occlude la volta aerea a chi sorregge molto più della metà del cielo. Lo dice nel 1968 il leader cinese Mao Tse-Tung che le donne “sorreggono la metà del cielo”. È rimasta, però, solo una frase: celestialmente retorica. A Pechino come a Roma.

Gianni Perrelli è stato un inviato, un corrispondente dall’estero di prestigiose testate giornalistiche italiane. Troppo conoscitore dei meandri del potere sotto tutte le latitudini geopolitiche e cielo-atmosferiche per illudersi che quella botola possa dischiudersi in Italia solo per grazia ricevuta, per un incantesimo, una giaculatoria, una formula magica. Per di più aprirsi a una donna altamente ideale, dantescamente istituzional-angelicata. Di dantesco nella trama ci sono solo i gironi dell’intrigo, della trappola, del tradimento, del voltafaccia, del magma costantemente cangiante di amici e nemici, di consiglieri e doppiogiochisti, di botole che si aprono sì, ma all’improvviso, e inesorabilmente verso il basso: per ingoiarti.

La donna che siede per prima sulla più ambita  poltrona di Palazzo Chigi non è però la figura dell’eroina di un video gioco contro cui si ordiscono tutte queste congiure, alle quali lei deve, ad ogni attimo, respiro, cercare di scampare. No, è lei stessa tessitrice di incursioni, attacchi, spettacolari salti carpiati-avvitati parlamentari. Lei è Livia Serantoni. Ha denti, unghie, ginocchia che sa con precisione menare nelle parti basse maschili. È riuscita persino a tradire l’amore di una vita. Non solo quello sentimentale, erotico per il suo maestro, ma quello che attraverso i sentimenti e le pulsioni più intime tracciava per lei le costellazioni fisse dell’amore stesso per la politica, per la concreta sfera d’azione in direzione degli obiettivi di giustizia sociale alla base della militanza di partito e del primo apprendistato istituzionale. E questa resta la sua ferita più profonda: che affonda, riaffiora, la tormenta di notte sulla linea tra conscio e inconscio, senso di colpa e cinismo realista, reale e virtuale, tra le trincee sanitarie d’Africa dove lui se n’è andato a combattere la sua ignota battaglia umanitaria e quelle che invisibilmente tagliano i corridoi del Palazzo romano. E lui è Paolo Rizzi, figura abissalmente silente, politicamente mitopoietica, antropologicamente aureolata, cui Livia però non può fare a meno di scrivere via web prima di addormentarsi, quasi fosse l’unica preghiera che lei è capace di innalzare con animo autentico al cielo. Anche se il santo cui è rivolta, altrettanto autenticamente, non le risponde mai.

C’è un confine, però, un occulto fossato da castello medievale che lei ha saputo scavare intorno alla sua attuale vita privata, con il ponte levatoio sempre alzato a rendere impenetrabile la coltre degli incontri clandestini nella sua ardente alcova erotica.  Ardente, anzi scottante, perché i rendez-vous segreti sono con un personaggio pubblico, un giovane articolista in ascesa, che politicamente la pensa esattamente all’opposto di lei, tanto che si permette di menare anche pesanti fendenti contro di lei nei pezzi quotidiani sul suo giornale. E questi è Giorgio Recalcati. Cognome da lettino massimamente psicanalitico. Anche per l’autore del libro, il quale ha trascorso una vita tra redazioni, corrispondenze da tutti i fronti, incandescenti casi giornalistici. E il giornalismo trasuda da sotto le righe, permea sottilmente tutta l’atmosfera del romanzo, dagli incontri internazionali di Livia Serantoni, alle memorie giovanili di Paolo Rizzi, al confronto con gli attuali sistemi di comunicazione elettronici, social. Perché: si può davvero pensare la politica senza il giornalismo? Senza quella lettura del giornale che Hegel definisce la preghiera del mattino dell’uomo moderno?

La prima leader italiana a Palazzo Chigi deve dunque attraversare questa linea di crisi della politica, dei suoi riti, delle sue sante messe laiche officiate con messinscena sempre più neanche corrotte quanto corrose, lise. Una terra di nessuno, in inglese no man’s land, ossia senza più man, uomo, maschio. Proprio per questo, però, zona di macerie quanto mai insidiosa, veneficamente lusingante, mimeticamente ingannevole, intrigante sia come attrazione, sia come repulsione.

Cosa può portare, difendere, salvare Livia Serantoni lungo questa fetida striscia oltre il confine, quando tutto comincia a muoversi, come la foresta di pietra in un orrorifico video game, per stringersi intorno a lei, schiacciarla, stritolarla? E non è tanto l’epilogo narrativo a contare, quanto il suo realismo simbolico. Il suo Madamina, il catalogo è questo, intonato per tutte, tutti noi dal Leporello autore sull’eredità che lascia il potere maschile, patriarcale di Don Giovanni, mentre il Commendatore lo sta sprofondando nell’abisso.

di Riccardo Tavani

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