Papa Francesco: abbracciamo i poveri

Pregando a Santa Marta, Papa Francesco non dimentica i poveri, i rifugiati siriani, i bambini e tutti coloro che muoiono di fame in un mondo opulento in cui le ricchezze sono in mano a pochi mentre la povertà e per tutti. Un mondo ingiusto dove la disuguaglianza determina fame e guerre. Commentando il Vangelo del ricco Epulone e del povero Lazzaro ha esortato a non essere indifferenti di fronte al dramma di quanti, soprattutto bambini, soffrono la fame o fuggono le guerre e trovano davanti solo muri e respingimenti.

“Questo racconto di Gesù è molto chiaro; può sembrare un racconto per bambini, è molto semplice. Gesù vuole indicare come l’umanità vive e non dovrebbe. Due uomini, uno soddisfatto, che sapeva vestirsi bene, cercava i più grandi stilisti del tempo, indossava vestiti di lino finissimo e porpora. Se la passava bene perché ogni giorno si dava a lauti banchetti. Lui era felice così.  Alla sua porta stava un povero:  Lazzaro si chiamava. Lui, il ricco, sapeva che c’era il povero, lì, alla sua porta. Lo sapeva. Ma gli sembrava naturale, io me la passo bene e questo…ma così è la vita, che si arrangi. E così passo la vita di questi due. Ambedue sono, poi, passati per la Legge di noi. Morì il ricco e morì Lazzaro. Il Vangelo dice che Lazzaro è stato portato in cielo, accanto ad Abramo. Del ricco soltanto dice: è stato sepolto. E finisce.

Ci sono due cose che colpiscono, dice Papa Francesco, il fatto che il ricco sapesse che c’era questo povero e che sapesse il nome, Lazzaro. Ma non importava, gli sembrava naturale. Il ricco faceva anche i suoi affari che alla fine andavano contro i poveri. Conosceva ben chiaramente, era informato di questa realtà. E la seconda cosa che a me tocca tanto, dice Bergoglio, è la parola “grande abisso” che Abramo dice al ricco. Fra noi c’è un grande abisso, non possiamo comunicare, non possiamo passare da una parte all’altra. È lo stesso abisso, dice Papa Francesco, che nella vita c’era tra il ricco e Lazzaro: quell’abisso ora è qua. Ho pensato a quale fosse il dramma di quest’uomo ricco: il dramma di essere molto, molto informato, ma con il cuore chiuso. Le informazioni di quest’uomo ricco non arrivavano al cuore, non sapeva commuoversi, non si poteva commuovere difronte al dramma degli altri. Un dramma che si ripete da duemila anni. La povertà non arriva al cuore dei ricchi e degli indifferenti.

Tutti noi sappiamo, dice Francesco, perché lo abbiamo sentito al telegiornale o letto sui giornali, quanti bambini muoiono di fame oggi nel mondo, quanti bambini non hanno medicine, non possono andare a scuola, non hanno un tetto, vivono al freddo, senza genitori. Una umanità intera con questo dramma, più della metà della popolazione mondiale. Lo sappiamo. Ma siamo indifferenti. Queste informazioni non scendono al cuore. C’è l’abisso dell’indifferenza. A Lampedusa, dice il Papa, quando sono andato la prima volta, mi è venuta questa parola: la globalizzazione dell’indifferenza. Oggi siamo preoccupati, giustamente per noi, per le nostre cose a cui dobbiamo rinunciare per il Coronavirus, e dimentichiamo i bambini affamati, i profughi siriani, le guerre. Dimentichiamo la povera gente che ai confini del paese fugge le guerre e la fame e trovano soltanto muri, filo spinato e lacrimogeni e manganelli. Muri che non lasciano passare, polizia che respinge. Sappiamo che questo accade, ma non arriva al cuore. Non ci commuove. Noi viviamo nell’indifferenza. L’indifferenza è questo dramma di essere bene informato ma non sentire la realtà altrui. Questo è l’abisso: l’abisso dell’indifferenza.

Poi c’è un’altra cosa che mi colpisce, dice Francesco, qui sappiamo il nome del povero. Lo sappiamo. Lazzaro. Anche il ricco lo sapeva, ma non sappiamo il nome del ricco. Neanche Abramo lo sapeva. Il Vangelo non ci dice il nome del ricco. Non aveva nome, soltanto aveva gli aggettivi della sua vita. Ricco, potente, signore, tanti aggettivi, ma non aveva un nome. Questo è quello che fa l’egoismo dentro di noi, fa perdere la nostra identità reale, il nostro nome e soltanto ci porta gli aggettivi. La mondanità ci aiuta in questo essere “aggettivi”. Siamo caduti nella cultura degli aggettivi dove il tuo valore è quello che hai, la mondanità che vivi, ma non come ti chiami, che veramente sei. Hai perso il nome. Hai perso il cuore. Hai perso l’amore, se mai ce lo avessi avuto o se mai lo avessi provato. L’indifferenza porta a questo. Perdere il nome. Soltanto siamo ricchi, siamo questo, ricchi. Siamo aggettivi e gli aggettivi non hanno amore.

di Claudio Caldarelli e Fabrizio Lilli

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