Il lotto 285 – capitolo cinquantatre

La Zattera degli Impiccati

“Vi sono dei momenti in cui si teme di avere un segreto verso un amico, anche se, fino a quell’istante, lo si è tenuto nascosto con gran cura; l’anima si sente irresistibilmente spinta a confidarsi completamente, a rivelare all’amico anche il suo più intimo fondo, perché egli diventi ancor più nostro amico. In quei momenti le anime delicate si confessano  e a volte capita perfino che una resti atterrita dalla confidenza dell’altra.”

Ludwig Tieck – Il Biondo Ecberto

(vedi capitolo precedente)

….. anch’essa falsa, ero in condizione di riprendere la mia missione. Da quell’ambiente suburbano nel quale ero stato scagliato da un destino ineluttabile di prigionia e di morte, e dal quale ero uscito ancora una volta illeso, passai ad un paesaggio ben diverso ed inaspettato. La montagna.

Avevo avuto il compito di arrivare in Svizzera. Sarei dovuto partire assieme alla mia guida alpina, un grande rocciatore di nome Giacomo con cui dovevo percorrere con lui i trenta chilometri, tra una valle e l’altra, per giungere a destinazione ed incontrare gli altri due emissari.

Ci stavamo inerpicando, io e il mio compagno d’avventura, su un costone d’alta montagna innevata e ben presto arrivammo nei pressi di un pianoro a mezza costa che conduceva verso un  valico che ci avrebbe consentito di raggiungere il paesino sottostante. Procedevamo a stento con gli scarponi immersi in una poltiglia di neve e fango quando vedemmo all’orizzonte un livido rosseggiare e udimmo un crepitio prolungato, poi un intenso cannoneggiamento seguiti da una pioggia torrenziale, così gelida e fitta, che sembrava fatta di lance e frecce scagliate dall’alto da un gigante o da un dio vendicativo che si nascondeva tra le nubi. Il sole  stava calando dietro le vette più alte e venne presto la notte. A quel punto, per la fitta pioggia e per il buio sopraggiunto, constatammo che, anche volendo, non avremmo più potuto proseguire e quindi trovammo riparo in una casupola al margine di un bosco, probabilmente rifugio dei taglialegna, stendemmo una stuoia sul pavimento gelido, indossammo i sacchi a pelo e cercammo così di trascorrere la notte. Mi ero appena addormentato che fui assalito da un sogno in cui appariva una donna che correva con le bianche vesti svolazzanti, che riconobbi essere la mia compagna di battaglia da cui ero da lungo tempo separato. Era sbiancata in volto e le gambe tremavano per lo sforzo ma sembrava che avesse le ali che la staccavano di poco dal suolo accidentato, come una diafana falena che vagava nella notte. Poi d’un tratto si fermò, come presa da un soprassalto, mi vide attraverso gli alberi, mi si avvicinò ed io finalmente potei stringerla a me, trepidante. Ella si accasciò ai miei piedi e, come nelle favole, prese a raccontarmi una triste storia, il cui ambiente e la situazione mi facevano intuire che riguardasse anche me, che ora giacevo in una foresta ai piedi delle montagne. Ero talmente aduso ad essere visitato da sogni durante la notte (e, a volte, anche durante la veglia) che non mi meravigliai che la figura che avevo davanti fosse la mia amica, presumibilmente in fuga, come l’avevo vista più volte nella realtà, anche se sembrava più pallida, quasi spenta e titubante nel procedere del racconto:

“Quando uscii dal bosco, il sole era già abbastanza alto. Mi si parò dinanzi una massa oscura, tutta coperta dalla nebbia. Ora mi dovevo arrampicare su per una collina, ora proseguire per un cammino tortuoso in mezzo alle rocce; indovinai presto che mi trovavo ormai nelle vicine montagne e così cominciai ad avere paura in quella solitudine. Stando sempre in pianura, non avevo visto mai dei monti e solo a sentirli rammentare il mio orecchio infantile credeva di percepire una parola paurosa. Non avevo il coraggio di tornare indietro, la mia paura mi spingeva innanzi; a volte mi voltavo spaventata quando il vento mi sfiorava, soffiando tra gli alberi, o se sentivo risuonare da lontano, nella quiete del mattino, i colpi di un taglialegna. Quando incontrai carbonai e montanari che avevano una pronuncia diversa dalla mia, dallo spavento sarei quasi svenuta.”.

A questo punto la donna svanì come un’ombra nella notte, mi svegliai e mi ritrovai, solo, infreddolito e stanco, accanto al mio compagno di ventura che ancora dormiva della grossa.

Al mattino ci svegliammo e da dietro le nubi si vedeva già, in qualche tratto di sereno, il sole. Facemmo quindi colazione con qualche galletta bagnata nell’acqua, appallottolammo il sacco a pelo, stringendolo con una cinghia, lo ficcammo nello zaino, legammo la stuoia sul retro e cominciammo a marciare con passo sicuro nella neve che, nel frattempo si era ghiacciata. Gli scarponi che indossavamo facevano presa sul ghiaccio, il che ci consentì di procedere più speditamente senza il pericolo di  scivolare. Nei pochi tratti in cui rallentavamo la camminata, e visto che lui continuava a guardarmi con fare interrogativo, cominciai a raccontargli le mie passate vicende. Lui mi ascoltava senza parlare ma quando gli svelai che mi ero unito, nella guerriglia cittadina, ad una cospiratrice, mi chiese se non era pericoloso mischiare i sentimenti privati con i doveri di un combattente. Io risposi che consideravo combattente più lei di me e gli svelai anche le sue imprese.

La distesa di ghiaccio era tanto vasta che ci fece perdere di vista il passo che dovevamo raggiungere. Una fitta nebbia si era posata sulla valle e non ci poteva più fare intravedere nemmeno il paese, o quello che fosse, tanto che sospettammo di aver perso la strada per avvicinarlo. Consultando la bussola puntammo verso ovest, dove sapevamo che le montagne sarebbero state meno erte e quindi avremmo potuto liberarci dalla stretta del ghiaccio. Procedendo a fatica, d’un tratto vedemmo aprirsi una fenditura nella bianca distesa. Lui, inavvertitamente  fece qualche passo per aggirarla ma questa si aprì maggiormente e lui, con un grido, vi finì dentro. Non essendo legati da alcuna corda non ebbi modo di fermare la caduta ed egli precipitò come un sasso nell’orrido profondo. Il crepaccio allora, d’improvviso apertosi per lo slittamento della massa in movimento del ghiacciaio, fu la sua tomba.

Io ripresi il cammino con prudenza e con il cuore gonfio per quella perdita inaspettata e ben presto raggiunsi la valle sottostante dove vidi finalmente ergersi, tra la nebbia che si stava diradando, la guglia di un campanile e le prime case dai tetti bianchi di neve. Ero salvo, ma i chilometri che avevo percorsi sotto la neve mi avevano completamente stravolto: avevo la febbre ed ero ustionato a causa del riverbero del sole sulla superficie bianca, con il volto tutto gonfio, come dopo un duro incontro di boxe. Fui curato amorevolmente dalle suore di un convento, le quali mi misero subito a letto. Naturalmente stetti alcuni giorni fermo, poi mi ripresi, mi rimisi in forze per riprendere il cammino, scalai nuovamente la montagna, percorrendo cinquanta chilometri al giorno, notte e giorno, senza sentire la stanchezza, al freddo, dormendo all’addiaccio. Però era una cosa fantastica, poiché ero solo nello scenario indimenticabile dell’alta montagna.

Alla fine incontrai un fiumicello che scendeva a valle, seguii verso il basso il percorso accidentato di una riva e vidi che  l’esigua massa d’acqua gorgogliante sfociava in un grande fiume. Seppi allora di essere vicino alla principale città del Nord, che era la mia meta. C’era però da attraversare il corso d’acqua., non c’erano ponti vicini e stava per calare la notte ma riuscii a trovare un traghettatore. Il cielo era chiaro. Splendeva la luna, il tempo era tranquillo, il fiume scorreva placido. La barca, dondolando leggermente, sfiorava sicura le oscure onde. Mi feci cullare dal suo lento procedere e sprofondai nei sogni della mia fantasia. D’un tratto, nel dormiveglia, vidi nell’oscurità qualcosa che scendeva lungo il fiume.

L’oggetto sconosciuto si avvicinava. Ordinai al traghettatore di fermarsi ed aspettarlo. La luna si nascondeva dietro una nuvola. Quella scura sagoma era già abbastanza vicino a me ed io ancora non potevo distinguerla. A un tratto la luna uscì da dietro la nuvola e illuminò un terribile spettacolo. Ci veniva incontro una forca, fissata ad una zattera. Tre corpi pendevano dalla trave superiore. Uno di loro aveva appeso al collo un cartello con la scritta:

“Achtung Banditen!”

(continua)

di Maurizio Chiararia

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