Straziarono Nirbhaya: impiccati in quattro

Era la notte del 16 dicembre 2012 quando nella capitale indiana, Delhi, veniva ritrovato il corpo senza vita della giovane vittima di uno stupro efferato ed atroce, una studentessa di fisioterapia di 23 anni, chiamata dalla stampa Nirbhaya (“colei che è senza paura”), perché secondo la legge indiana la vittima di una violenza sessuale non può essere identificata. I quattro uomini condannati per l’omicidio e la violenza, Akshay Thakur, Vinay Sharma, Pawan Gupta e Mukesh Singh, sono stati impiccati all’alba del 20 marzo scorso, precisamente nella prigione di massima sicurezza di Tihar. Degli altri due condannati, uno è stato trovato morto in prigione nel marzo del 2013 mentre il secondo, minorenne al momento dei fatti, ha scontato tre anni di pena prima di essere rilasciato.

Ma veniamo ai fatti. Quel 16 dicembre di ben otto anni fa, Nirbhaya aveva deciso di andare con un amico al cinema e, terminato il film avevano entrambi raggiunto la fermata dell’autobus di linea che li avrebbe riportati a casa. Doveva essere semplicemente una serata di spensieratezza ed allegria. Invece quella notte si è trasformata nel peggior incubo che si possa immaginare.

Il mezzo pubblico tardava, la zona era isolata, nessuna persona all’orizzonte così i due ragazzi accettarono di salire su un autobus privato. Autobus che partì immediatamente, ma verso la direzione sbagliata. Le porte furono sigillate e i cinque giovani ubriachi a bordo iniziarono a molestare Nirbhaya. Il ragazzo protestò, venne picchiato con una sbarra di ferro mentre la ragazza venne violentata a turno e lacerata con un’asta arrugginita. Sanguinante e incosciente, venne gettata con l’amico a lato della strada, dove vennero ritrovati da un passante. A causa delle gravi ferite, lacerazioni genitali e intestino perforato, Nirbhaya venne trasferita in un centro di Singapore, dove morì il 29 dicembre.

“Saremo felici solo quando questa gente verrà impiccata” ha sempre ripetuto la madre della vittima, in questi lunghi anni, mentre folle di giovani donne, madri e nonne, mobilitatesi per le strade del Paese, le facevano eco. “Chiedo a tutti i governi di creare un sistema incisivo, che faccia si che gli autori di tali crimini siano impiccati entro sei mesi” annunciava la presidente della Commissione per le donne di Delhi, Swati Maliwal.

Va detto che con il procedere del processo, c’era anche chi manifestava la sua condanna anche alla pena di morte come soluzione di un problema le cui origini sono ben radicate nella società. Così, ad esempio, l’avvocatessa Indira Jaising ha dichiarato che la pena di morte si può configurare come una forma di “giustizia rapida” che non risolve il reale crimine, il vero problema della società ossia la violenza contro le donne.

“In India la pena di morte non è un deterrente”, ha scritto su Twitter Nivedita Menon, scrittrice e professoressa femminista dell’Università Jawaharlal Nehru. “È inflitta in modo sproporzionato a persone appartenenti a determinati gruppi, emarginati nella società”, ha precisato, ricordando che il 75% dei condannati a morte appartiene agli stati più poveri e meno istruiti, come nel caso dei quattro appena impiccati.

Secondo un rapporto del National Law University di Delhi tra il 2000 e il 2014 i tribunali indiani hanno condannato a morte 1.810 persone, la metà delle quali sono state commutate in ergastolo e circa un quarto delle quali sono state assolte dalla Corte suprema. La tendenza è cambiata con il caso Nirbhaya, spiegano, con un numero record di 162 persone condannate a morte nel 2018, la gran parte delle quali sta scontando l’ergastolo stabilito dalla Corte Suprema. La logica di condannare a morte gli stupratori si basa sulla convinzione che lo stupro sia un destino peggiore della morte.

Molte associazioni assolutamente contrarie alla pena di morte, ritengono infatti che sia uno strumento patriarcale, un atto di violenza e che non abbia nulla a che vedere con la moralità, il carattere o il comportamento delle persone. La violenza contro le donne indiane, ribattono, non si combatte con sentenze capitali. Impiccare in questo caso i responsabili di uno stupro così efferato, non rende il paese più sicuro per le donne. Il problema è nella società responsabile della creazione e del sostegno della cultura dello stupro.

Occorrerebbe quindi si, garantire provvedimenti severi per gli stupratori ma contemporaneamente, poco alla volta, andrebbe “rieducata” l’intera società, con messaggi incisivi a cominciare dai più giovani. Un percorso forse lungo e tortuoso ma che con il tempo può dare i suoi effetti. Dunque una sorta di “recupero sociale” soprattutto nei confronti dei minori e di tutti coloro che presentino gravi problemi derivanti dall’essersi formati in ambienti socialmente e moralmente inadatti.

di Stefania Lastoria

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