L’America Latina cerca di combattere la violenza ostetrica

Era il 2012 quando Agustina, un’attrice comica argentina di 38 anni aveva appena partorito con taglio cesareo in ospedale. Quel giorno avrebbe dovuto essere il giorno più bello della sua vita eppure, Agustina era agitata e profondamente turbata. Confessò poi che il suo ostetrico, aveva reso più probabile il ricorso all’intervento chirurgico inserendo degli ormoni nella sua vagina durante quella che avrebbe dovuto essere una banale visita di controllo. Due uomini avevano eseguito la pericolosa manovra di Kristeller, spingendo verso il basso sulla pancia. Lei svenne, un assistente l’aveva schiaffeggiata per tenerla sveglia, un altro le aveva legato il braccio al letto. Tutto le sembrava assurdo ma nel suo racconto dirà: “Pensavo che il dottore fosse come il tuo capo. Tu fai quello che ti dice”.

Eppure il suo calvario e il suo racconto non sono insoliti. Alcune inchieste nei paesi dell’America Latina hanno rivelato che tra un quarto e un terzo delle donne che partoriscono, subiscono abusi ad un certo punto del travaglio oppure cure non consensuali. Altra forma comune di maltrattamento sono i commenti umilianti del personale a cui si aggiunge spesso la sospensione degli antidolorifici senza spiegazione, la contraccezione forzata o la sterilizzazione dopo il parto.

Le donne giovani, non sposate e povere assistite in un ospedale pubblico hanno più probabilità di soffrire. Gli attivisti hanno dato a tutto questo il nome di “violenza ostetrica” tanto che in Brasile, il movimento per “umanizzare il parto” è attivo da almeno trent’anni. E solo questo già ci dice tanto di una realtà non conosciuta e taciuta a molti.

Paradossalmente tali abusi sono perversamente una conseguenza del progresso. Perché se è vero che una migliore assistenza sanitaria ha ridotto di molto la mortalità infantile e materna, è pur vero che ha rafforzato una cultura che tende a considerare i medici come eroi infallibili, i pazienti come essere passivi e la chirurgia come la prima scelta anche quando risulta dannosa o contraria alla volontà e ai desideri della donna.

Come dicevamo in Brasile un movimento per umanizzare il parto, guidato da femministe ed esperti di sanità pubblica, è attivo da almeno trent’anni. Ci sono poi state alcune campagne che hanno tentato di educare attraverso la legge, con la speranza che eventuali modifiche normative avrebbero reso le persone più consapevoli del problema e quindi più propense ad esercitare pressioni su medici ed altri assistenti sanitari affinché iniziassero a comportarsi correttamente e nel rispetto dei diritti umani.

Nel 2007 il Venezuela è diventato il primo paese a rendere reato la “violenza ostetrica“, definendola “appropriazione dei corpi e dei processi riproduttivi delle donne da parte degli operatori sanitari”. Leggi simili sono state approvate in Argentina, in Bolivia e a Panama.

Nel 2001 l’Uruguay ha dato alle future madri il diritto di avere un accompagnamento durante il parto.

Eppure non ci sono prove che le leggi stiano funzionando e pochi governi rilasciano dati sulla loro attuazione.

I tribunali sono riluttanti a coinvolgere i medici a meno che non abbiano danneggiato fisicamente la madre o il bambino, in parte perché non è possibile provare altri abusi basandosi sulle cartelle cliniche. Durante la pandemia poi tutto è peggiorato: alcuni diritti, come avere un compagno vicino o scegliere il parto naturale, sono stati sospesi.

Questa violenza sulle donne nel momento che dovrebbe essere il più emozionante e raggiante della loro vita è a dir poco inaudito.

Così, tanto per avere un quadro più chiaro della situazione, quando Agustina è rimasta incinta di nuovo, nel 2014, ha cambiato ostetrica, ospedale ed ha scritto il suo progetto di parto. Comprendeva un parto naturale e un contatto immediato pelle a pelle con il suo bambino, che avrebbe bevuto latte materno e non in polvere. L’ospedale ha respinto tutte le sue richieste. Dopo il taglio cesareo, una dottoressa ha minacciato di denunciare Agustina ai servizi di protezione dei minori. È uscita dall’ospedale incapace di lavorare e lottando per stabilire un legame con il suo bambino. Il suo matrimonio è finito. Nel 2016 ha intentato una causa contro i medici, l’ospedale e gli assicuratori sanitari. Il primo caso del genere in Argentina, ma sta ancora aspettando un verdetto.

Così anche se i governi stanno iniziando a dare più rilevanza alla formazione dei medici, a non mettere in primo piano la “tecnica” quanto i diritti delle donne e la capacità di entrare in empatia con le pazienti, a prediligere l’aspetto umano e altruistico verso coloro che devono essere accudite sia fisicamente che psicologicamente, alla fine i progressi sembrano essere troppo lenti per non dire fermi.

Fermi ad un tempo lontanissimo e per molti di noi mai esistito. Eppure il primo timido passo in Brasile fu fatto trent’anni fa quando nacque il movimento per umanizzare il parto. Trent’anni di pochissime conquiste, quasi un nulla, poco più di niente. E certo non si possono aspettare altri trent’anni per tentare il secondo passo e cominciare a percorrere a grandi falcate proprio la strada che conduce alla “vita”.

di Stefania Lastoria

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