Torneranno a fiorire i banchi di scuola?

C’è una spartiacque epocale che Covid-19 ha scavato tra passato e futuro. Una vera e propria faglia sismica che ha colpito, ridotto in macerie l’intero edificio scolastico. Non è sufficiente che i vecchi plessi siano rimasti completamente intatti per non considerarli ugualmente crollati, data la loro attuale totale inagibilità. Certo, si tornerà a frequentarli, ma solo come se tutto l’intero corpo vivente scolastico fosse un’unica gigantesca persona diversamente abile. E proprio tale condizione dovrebbe ora aprirci a una nuova, più autentica, ossia più giusta visione della scuola del futuro.

Dieci milioni di corpi, tra studenti, prof e personale ausiliario, costituiscono in Italia la materia viva discente, docente e operante dentro l’ammasso di materia inerte che sono i circa cinquantanove mila edifici scolastici. Di questi, circa ventiquattromila hanno tra i settantacinque e i quarantacinque anni suonati. Il quotidiano appello mattutino, infatti, registra più o meno inquietanti crepacci e rilasci di calcinacci. Più della metà dei plessi, inoltre, non possiede uno straccio di certificato antincendio. Siamo certi, però, che già ora non si siano aperte crepe, fratture, lesioni anche giù nel sottosuolo della magmatica psiche giovanile? Le sonde di molti psicoterapeuti stanno già captando inedite eco di profondità.

Non solo profondo, ma anche irradiante in direzione impreviste, infatti, è stato lo choc da impatto in piena velocità contro il muro del lockdown. Lo è stato per gli adulti, figuriamoci per infanzia, adolescenza e prima giovinezza. Soprattutto salirà dal sottosuolo dell’inconscio discente una domanda. Ma se tutta la scienza e cultura che trasmettete attraverso il vostro insegnamento conduce a tali catastrofici esiti, oggi ci rimettete sui banchi di scuola ad apprendere cosa esattamente? E con quali metodi? Avete imbastito uno strumento elettronico, la Dad, Didattica a distanza, con contenuti vintage, che male si adattano al nuovo mezzo e ne limitano le potenzialità. Scarsamente anche i docenti sanno adattarvisi ed esaltarlo. Per non parlare del digital divide, il dislivello nel possesso dei mezzi e delle condizioni necessarie di connessione che ha discriminato migliaia un troppo grande numero di studenti. Con altrettanti anacronismi, ma per ancora più inderogabile necessità, il medium elettronico è entrato dentro il sistema produttivo, attraverso il cosiddetto smart working, o lavoro da casa, telelavoro. E in buona misura non ne uscirà più. All’improvviso, infatti, ci si è accorti della inutilità ormai di molti plessi e spazi lavorativi. E anche commerciali, culturali. Supermercati, negozi, cinema, teatri, biblioteche, musei ci sono entrati in cucina, soggiorno, camera e camerette da letto via web.

Nessun medium, per quanto antiquato, è mai completamente annullato da quelli nuovi che via via sopraggiungono. Il teatro non è stato soppresso dal cinema, questo non è stato cancellato dalla televisione, la quale non è stata a sua volta smantellata da Internet. C’è però un ridimensionamento, o una nuova relazione tra essi. Pensiamo al ridimensionamento del medium stampa, rispetto a quello virtuale. La Dad, come lo smart working, sebbene con una certa gradualità, si configureranno sempre più nettamente quali nuove prassi umane per acquisire un sapere che poi si riverserà sui processi di produzione e riproduzione. Un intero, inedito orizzonte si sta profilando davanti a noi. Come risponde la repubblica, lo stato docente alla domanda urgente, crescente della società discente relativamente a contenuti e metodi che troveranno domani su banchi, testi, lavagne, tradizionali o in modalità elettronica? Anche perché i media virtuali, in modo incomparabilmente maggiore di quelli tradizionali, non sono affatto oggetti, mezzi, strumenti neutrali. Attuano un controllo e un condizionamento pervasivo, sotterraneamente intimo di chi li utilizza. Avviene, cioè, quel rovesciamento che prende il nome di eterogenesi dei fini. È lo strumento che si erge a scopo finale del processo, riducendo chi lo usa a suo mero mezzo. Quale sapere, coscienza, senso critico universale deve aprirsi nell’insegnamento e nell’apprendimento nei confronti di tale realtà. Realtà che già oggi perfora le traballanti mura scolastiche, invadendo, bombardando i programmi ufficiali con le sue proprie informazioni e modalità di trasmissione, vere, fake,  o inverificabili che siano. Con contenuti subliminali, mascherati, o scopertamente d’odio, intolleranza,  e neo razzismo.

Una volta – criticamente, ma anche legislativamente –depurato al massimo lo strumento, si spalanca uno scenario di apprendimento totalmente inedito e commisurato all’epoca che viene. Scienza, tecnica, cultura, arte possono essere apprese a ogni età, entrando direttamente in contatto con i veri maestri mondiali di tali prassi e saperi, attraverso masterclass, lectiones magistrales, laboratori oltre frontiera, scambi internazionali in tempo reale. Soprattutto si potrà cercare di superare le specializzazioni  e sotto specializzazioni disciplinari, che frammentano, disperdono la visione, la presa concreta sulla realtà in una miriade di giudizi, sempre più contrastanti, quando non del tutto opposti, in guerra tra essi, quali quelli in onda tutte le sere  in TV e sugli altri media proprio in questo cruciale età nella vita di ragazze e ragazzi. Il termine università, infatti, dovrebbe tornare a fiorire sui banchi di scuola in quell’accezione di universalità, unitarietà della conoscenza che sola potrà restituire a docenti, discenti e società un senso più autentico e più giusto dell’esistenza.  

di Riccardo Tavani 

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