Gli intellettuali nel ’68: manicheismo e ortodossia della “Rivoluzione dell’indomani”

Iniziamo, da questo numero, la pubblicazione di ampi stralci degli articoli di Pier Paolo Pasolini, raccolti nel libro Scritti Corsari.

C’è stato un momento, pochi anni fa, in cui pareva ogni giorno che la Rivoluzione sarebbe scoppiata l’indomani. Insieme ai giovani, dal ’68 in poi, a credere nella Rivoluzione imminente che avrebbe rovesciato, e distrutto dalle fondamenta il Sistema ( come allora veniva ossessivamente chiamato; e chi l’ha fatto arrossisca) c’erano anche degli intellettuali non più giovani o addirittura coi capelli bianchi. In essi questa certezza di una “Rivoluzione dell’indomani” non trova le giustificazioni che trova nei giovani: essi si sono resi colpevoli di aver mancato al primo dovere di un intellettuale: quello di esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti. E se, per la verità, si sono fatte in quei giorni orge di diagnosi critiche, ciò che mancava era la reale volontà della critica.

Non esiste razionalità senza senso comune e concretezza. Senza senso comune e concretezza la razionalità è fanatismo… Oggi è chiaro che tutto ciò era prodotto di disperazione e di inconscio sentimento di impotenza. Nel momento in cui si delineava in Europa una nuova forma di civiltà e un lungo futuro di “sviluppo” programmato dal Capitale, che realizzava così una propria rivoluzione interna: la rivoluzione della Scienza Applicata, pari per importanza alla Prima Seminagione, su cui si è fondata la millenaria civiltà contadina, si è sentito che ogni speranza di Rivoluzione operaia stava andando perduta. È per questo che si è tanto gridato il nome di Rivoluzione. Non solo, ma ormai era chiara non tanto l’impossibilità di una commensurabilità, tra capitalismo tecnologico e marxismo umanistico.

Da ciò l’urlo che è echeggiato in tutta l’Europa, e in cui predominava, su ogni altra, la parola Marxismo. Non si voleva, giustamente, accettare l’inaccettabile. I giovani hanno vissuto disperatamente i giorni di questo lungo urlo, che era una specie di esorcismo e di addio alle speranze marxiste: gli intellettuali maturi che erano con loro hanno invece commesso, ripeto, un errore politico. Errore politico che, al contrario, non è stato commesso dal PCI. Il PCI (partito comunista italiano ndr) si è reso realisticamente conto fin da allora dell’ineluttabilità del nuovo corso storico del capitalismo e del suo sviluppo: ed è stato probabilmente proprio in quei giorni che è cominciata maturare l’idea del “compromesso storico”.

Ammesso che a proposito di un intellettuale non politico, un letterato, uno scienziato, si possa parlare di “dovere” di un intervento politico, questo è il momento di farlo. Nel 1968 e negli anni successivi, le ragioni per muoversi, per lottare, per urlare, erano profondamente giuste, ma storicamente pretestuali. La rivolta degli studenti è nata da un giorno all’altro. Non c’erano ragioni oggettive, reali, per muoversi (se non forse il pensiero che la rivoluzione si poteva fare allora o mai più: ma è un pensiero astratto e romantico). Inoltre per le masse la reale novità storica erano il consumismo, il benessere e l’ideologia edonistica per un impegno totale. Lo stato di emergenza coinvolge le masse: anzi, soprattutto le masse.

Riassumerei tali ragioni in due punti: primo, una lotta, “subita”, contro i vecchi assassini fascisti che cercano la tensione non più lanciando le loro bombe, ma mobilitando le piazze in disordini in parte giustificati dal malcontento estremo; secondo, mettere in discussione il “compromesso storico”, ora che esso non si configura più come un intervento su un corso ineluttabile, lo sviluppo identificato con tutto il nostro futuro; ma si presenta piuttosto come un aiuto agli uomini del potere a mantenere l’ordine. Non direi semplicisticamente che il “realismo” del compromesso storico sia definitivamente superato: ma certo esso va, quanto meno, ridefinito al di fuori dal suo stretto carattere di “manovra politica”. Dunque, una forma di lotta disperatamente ritardata, e una una forma di lotta avanzatissima. Ma è in queste condizioni ambigue, contraddittorie, frustranti, ingloriose, odiose che l’uomo di cultura deve impegnarsi alla lotta politica, dimenticando le rabbie manichee contro tutto il Male, rabbie che opponevano ortodossia a ortodossia.

Pier Paolo Pasolini marzo 1974 Scritti Corsari

a cura di Claudio Caldarelli

Print Friendly, PDF & Email