In Iran sei anni di carcere per trent’anni di ricerca

Il 5 giugno del 2019 Fariba Adelkhah e Roland Marchal, entrambi ricercatori a SciencesPo Parigi, furono arrestati. A marzo di quest’anno Roland è stato oggetto di uno scambio mentre Fariba è ancora rinchiusa in prigione nel carcere di Evin, a Teheran, luogo di detenzione di moltissimi prigionieri di opinione. La sola colpa di questa donna è di aver svolto, con costanza e determinazione, il suo lavoro di ricercatrice. Fariba lavorava come antropologa a SciencesPo Parigi e da trent’anni ci ha consentito di comprendere le trasformazioni della società iraniana e anche di quella afghana. I suoi lavori sono di rara profondità: tutto poggia sulla conoscenza minuziosa e dettagliata del suo Paese d’origine, che non ha mai lasciato.

Come donna ha intriso le sue ricerche di quel modo originale nell’osservare tutto ciò su cui ha lavorato e quindi le donne e il loro ruolo nello spazio pubblico, il rapporto tra politica e religione, il ruolo dei confini e dei rapporti internazionali nella formazione dello Stato. Poi la guerra come stile di vita.

Dunque Fariba è una prigioniera scientifica, ossia è in carcere perché ha scritto, perché ha continuato a fare ricerca a dispetto delle circostanze, perché ha sempre pensato di non avere nulla da nascondere, perché ha sempre ritenuto che fosse necessario dibattere, discutere, confrontarsi con altre idee, per quanto diverse da quelle del regime o della maggioranza della popolazione, sia in “occidente” sia in Iran. Fariba è una prigioniera scientifica ‒ e non una prigioniera politica ‒ perché lei politica non ne ha mai fatta. Nonostante le critiche e le difficoltà del contesto Fariba ha continuato a fare ricerca con una forza di carattere impressionante.

La libertà scientifica che Fariba ha così tanto a cuore è ovviamente la libertà di pensiero, la libertà di parola, la libertà d’espressione ma anche il dovere di costruire la conoscenza, che è alla base di tutto. Dovere che è tanto più importante in quanto riguarda paesi lontani che sono sempre più difficili da comprendere ed avvicinare.

L’isolamento sulla scena internazionale, dovuto in particolare alla politica americana, e la privatizzazione crescente delle università che accettano che interi programmi delle loro ricerche siano finanziati da interessi stranieri, rendono sempre più difficile la conoscenza effettiva di questi paesi “lontani”. La marginalizzazione degli specialisti della regione ha aperto la strada alla rappresentazione dell’area come un Grande Medio Oriente, in cui l’unica politica possibile è l’intervento militare di cui la disastrosa guerra in Iraq ha dimostrato i limiti.

Da un lato abbiamo un debole sapere accademico che sembra combattere ad armi impari contro il sapere giornalistico, politico e quello prodotto dagli interessi economici.

In tutto questo, il modo di lavorare di Fariba, la sua concezione della professione, interpreta mirabilmente questo contropotere: ci mostra il carattere insostituibile della ricerca sul campo, del confronto tra le diverse tradizioni intellettuali, dell’indipendenza della ricerca. La lotta di Fariba ci riguarda perché non è la sua lotta. È la lotta di tutti noi, la lotta per la libertà scientifica, la lotta per la libertà in quanto tale. Per questo occorre iniziare dalla conoscenza, dalla cultura, da un cambiamento radicale specie nelle nuove generazioni che siano libere di pensare e di non fare propri i concetti altrui. Libertà di osare quel volo che porterà poi tutti ad esprimere i propri pensieri in una giostra di idee scambiate e condivise. Questo e molto più di questo è ciò per cui si sta battendo Fariba Adelkhah.

di Stefania Lastoria

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