La voce della sabbia

Tempo addietro abbiamo scoperto che a Ferrara c’è la osteria-enoteca più antica del mondo, datata 1400 circa dai carteggi ritrovati negli archivi. Qui venivano a dissetarsi Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Niccolò Copernico e tanti altri avventori più o meno famosi. Dovevamo esserci anche noi. Finalmente dopo una lunga attesa di mesi e mesi, finita la quarantena abbiamo deciso di venire a Ferrara. Siamo partiti di buon ora, alle 5 del mattino del 26 di giugno c.a. per venire a bere un vino d’altri tempi, passato in botte del XIV secolo, dove attingevano le brocche, bellissime cortigiane per abbeverare uomini illustri e meno illustri, qualche prete e donne di compagnia. Tutto inizia così, seduti intorno ad un  tavolo dove l’Ariosto racconto le gesta dell’Orlando Furioso e il Tasso la Gerusalemme Liberata.

Sentiamo la penna d’oca che graffia i fogli e immaginiamo la scena. I poemi prendono forma tra i fumi di un vino aspro e secco, le risate degli ubriachi, le nudità scomposte e le rotondità delle donne che offrono la loro abbondante mercanzia. Inizia così questo viaggio nella osteria più vecchia del mondo, forse ascoltando questo vino così inaspettato dal colore di un vecchio muro ingiallito dal tempo. Un po’ scrostato. Un po’ ammuffito, ma nel contempo delicatamente ruvido al palato con sentori di paglia calpestata da Victor Hugò, lo stallone inquieto nell’atto primordiale per desiderio di riproduzione, in un ippodromo fuori dal tempo, racchiuso nel recinto di una clessidra, incapace di fermarsi al morso sul collo di un orgasmo sopravvenuto sotto gli occhi affascinati ed eccitati di amazzoni altere e fiere di essere lì. Un po’ Dulcinea del Toboso, un po’ cortigiane, dallo sguardo languido è invitante. Poi noi, cavalieri erranti un po’ Chisciotte, un po’ Sancho Panza, tra la nebbiolina bassa, profumi di muschi dilatati dall’umido, sullo scudo, le cui insegne sarebbe bello decifrare. Questo è il nostro solstizio e attraverso la foschia gli occhi corrono rapidi, da ogni lato c’è qualcosa che lenisce e ristora il senso della vista.

Vino che scende, granelli di sabbia che trapassano la gola, seduti con devozione  naturale, nel mentre frutti maturi lasciano sbocciare il seno, aguzzano i capezzoli che spingono in avanti il lino sgualcito della camicetta scollata fino alla rotondità diafana e soda. Imponenti sussulti, dal fondo dei fasciami, incurvati dal peso degli anni, di una antica botte di rovere annerita dai secoli dei secoli e sul fondo non è posa o morchia, ma umore mieloso, acre e pungente, di un rito primordiale che si rinnova e si ripete ad ogni aurora fino al tramonto. Rituali d’amore accompagnati dal nitrire selvaggio di Arc de Triomphe, stallone in cattività, sullo sfondo di sonori amplessi contro il cielo bianco e brumoso, richiamato dalla risacca accompagnata dal vento delle foreste, il fragore delle cascate e il rollio dei mulini a vento, piegati ai voleri degli estensi, signori di Ferrara.

È stato piacevole, fermarsi, ad ascoltare Viola, essenzialmente una voce, dalla pancia del Sole che ovunque ci accompagna. Poi Alice, dal paese delle meraviglie, ci trasforma in cappellai matti o stregati. Ci guardiamo, ci sorridiamo, quasi un accenno di commozione. Una lacrima, dolce, delicata, e il nostro Sole si avvia, con tra le mani piccole mani, verso un’altra storia.

Poi di nuovo la voce della sabbia, dal fondo della botte, il respiro ansimante della cortigiana, affascinante e sfrontata nell’attimo della mescita, di questo vino bianco che sà di antico, e raspa un po’, stringendo la brocca pulsante in cui si ripete il rito primordiale e cosmico in cui il vino tratto dalla profondità emerge dalle viscere e si fonde, sudando, con la voce celestiale, armonia d’amore, accompagnata dalle note dolenti, di uno Steinway a coda lunga, lasciate scivolare libere da una finestra sotto i portici di Ferrara. Città magica, dai desideri che ti avviluppano il corpo e l’anima, per poi lasciarsi andare ad un canto liberatorio in un oceano invisibile, ma così essenziale per il cuore che brinda con tre bicchieri. Adesso, un acero rosso, un cipresso, un frassino, una betulla bianca. Per le foglie è come per i frutti e i legni, gli animali e le donne/uomini: quando sono maturi imparano ad amare e le loro caratteristiche sono evidenti.

di Claudio Caldarelli e Fabrizio Lilli

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