Il lotto 285 – capitolo 60

“Per molto tempo mi sono coricato presto la sera. “

Marcel Proust

Storia di una fotografia

    Tutto era finito. I tram ricominciavano a circolare regolarmente. Eravamo saliti sul primo che passava, senza una meta precisa. Leggevamo insieme alla luce della vettura questa poesia di E. Fischer che stava sulla prima pagina del quotidiano  e che la mia compagna aveva segnato col lapis.

“Meglio essere in due”.

“Andare soli, un bel triste andare,

incespica il piede spesso e il cuore trema,

meglio essere in due.

E se cadi chi ti sostiene? E se sei stanco a chi ti appoggi?

Meglio essere in due.

O pellegrino che silenzioso vai pel mondo

e il tempo, prenditi Gesù Cristo per compagno:

meglio essere in due.

Egli conosce la via, conosce il sentiero,

col braccio e con la voce egli ti aiuta.

Meglio essere in due.”

   Poi eravamo scesi  dalla vettura e ci eravamo fermati sul marciapiede poco affollato, e continuavamo a leggere, quasi novelli Paolo e Francesca quei versi, ma quello che ci caratterizzava era di tenere ciascuno  sul braccio un mazzo di giornali, evidentemente appena stampati, di cui esibivamo una copia per il pubblico. Ma la cosa più strana era che una fotografia, sicuramente un posato, che occupava l’intera  prima pagina, sicuramente un posato  di propaganda, rappresentava noi due che ci tenevamo a braccetto,  con me che esibivo una copia di quel giornale del nostro partito, quel giornale che per noi era stato il simbolo del’emancipazione dei popoli e che ci aveva seguito e confortato nelle lunghe ore di clandestinità, e che mi aveva consentito di essere in contatto con quelle figure eroiche che conducevano la mia stessa attività in altre parti del mondo. Figure come Dolores Ibarruri detta “la Pasionaria, o Ho ci min che, dopo anni di carcere, era tornato a capo del Movimento di Liberazione del proprio paese, o il fotografo ungherese Robert Capa, caduto nell’espletamento del suo lavoro di corrispondente di guerra.

   Vederci entrambi così raffigurati  ci consentì di avvicinarci, nel vero senso della parola, ancora di più. E quella sensazione di intimità, ancorché  dovuta ad una semplice poesia, che andava ogni giorno di più prendendo forma, cosa mai poteva impedirci di guardarci negli occhi e scambiarci quei sentimenti che ormai dilagavano fra noi due? In più ora quella sorpresa che ci riempiva d’orgoglio. Avevamo entrambi una postura eretta, come si addiceva a due militanti, con lo sguardo che guardava lontano, serio.  Io ero quasi imponente, con il petto in fuori e con il braccio che teneva forte il giornale che rimaneva davanti a me fermo e spiegato come una bandiera appena mossa dal vento. I nostri vestiti erano semplici e, pur nella foto  in bianco e nero, apparivano dai colori tenui, tra il bianco, il grigio e il marrone chiaro.

Pensandoci entrambi, per la prima volta raffigurati in modo così evidente, ci faceva sperare, sì, in una notorietà raggiunta che ci era finalmente dovuta, ma, sia per il nostro carattere schivo, sia per i criteri di moralità che contraddinguevano il nostro partito, non demmo eccessiva  importanza alla cosa.

   Tornati a casa, con le copie del giornale quasi finite, ne conservammo alcune copie che mettemmo in soffitta.

   C’erano delle mattine che mi svegliavo e l’avevo accanto, altre nelle quali stringevo solo il suo cuscino ma comunque avvertivo ancora la sua presenza dal profumo che ancora aleggiava nella stanza. Profumo di pesca matura che ancora traspirava dalla federa su cui si erano state poggiate le sue gote candide e leggermente rosate,  un profumo di fresco come quello di un frutto a primavera. Mi domandavo spesso se fosse naturale o una mistura di vecchi sali da bagno che lei talvolta usava per pediluvi improvvisati nelle soste dopo faticose marce di chilometri e chilometri.

   Le sue piaghe sotto i piedi erano guarite ma erano rimaste delle fessure nella pelle che dovevano ancora farla soffrire.

   Tutto era finito ma mi rimaneva ancora quel senso di angoscia, che era da attribuirsi più che a una dolore fisico, ad una sensazione di impotenza di fronte a quelle fitte che sicuramente ancora dovevano attraversare i suoi piedini da geisha.

   Dalla sua parte si sprigionava ancora quell’inconfondibile profumo ed io finalmente mi svegliavo col respiro grosso, la bocca impastata, gli occhi cisposi, la gola secca e quell’inconfondibile senso di stanchezza che contrastava con le lunghe ore di riposo, di assenza di sé, che caratterizzavano ormai il mio sonno. In più si aggiungevano i fantasmi della notte, pensieri che riaffioravano senza capo né coda. Guardavo spesso di sottecchi l’ora dalla pendola ma non distinguevo lo spazio che intercorreva tra una lancetta e l’altra e quindi potevo immaginare qualsiasi posizione delle ore, il che mi costringeva ad un rapido calcolo tra la luce che filtrava dalle persiane e il buio della stanza, come un viandante che stenti ad orientarsi senza bussola.

   E, cosa assai prosaica, mi ero scoperto a russare, il che spesso induceva la mia compagna ad andare a dormire nell’altra  stanza, anche se talvolta, per una forma di sfida, rimaneva a letto e si copriva l’orecchio come la colomba che si nasconde sotto l’ala dischiusa.

   Gli anni sarebbero passati ma quella fotografia ingrandita avrebbe fatto spicco sul leggio del salotto, un po’ ingiallita dal tempo ma ancora integra sul cartoncino sulla quale era stata applicata. Sarebbe stato un miracolo che fossero ancora distinguibili i particolari, quasi fosse stata scolpita nel marmo ed a volte quei particolari sembravano uscire dal rettangolo e prendere vita propria. Con gli anni sarebbe stata portata ed esibita alle feste del giornale, quasi come vessillo sacro, a volte i partigiani l’avrebbero riprodotta su migliaia di volantini, inseriti poi, la domenica, tra le pagine del quotidiano o affissa con manifesti sui muri. Come ci saremmo sentiti orgogliosi, io e la mia compagna (e i figli nel frattempo venuti) quando qualcuno ci fosse venuto a trovare ed ammirare quel cimelio! Ma quella prima copia montata su cartoncino sarebbe stata persa, con nostro profondo dispiacere, in uno dei nostri numerosi traslochi.

   Sarebbero passati altri anni quando, ormai vecchi e ed ancora con la mania del collezionismo, in una bottega di rigattiere avremmo trovato insperatamente quel prezioso rettangolo, ora incastonato in una semplice cornice dorata, un po’ impolverato e ed  ingiallito dal tempo. Sarebbe stato da me comprato per poche lire, portato a casa, ripulito e ritoccato in alcuni particolari sbiaditi, e rimesso sul suo leggio originario. Ma facendo questa operazione e guardando nel  retro del cartoncino, avrei notato in un angolo una sigla che sarebbe stata da me riconosciuta (da me, e solo da me, visto che nessun altro aveva preso parte a quella ricerca) essere il marchio oggetto del mio lungo investigare, scritto col lapis da una mano incerta: Lotto 285.

di Maurizio Chiararia

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