LA NOTTE DEGLI ATTENTATI DEL ‘93

Tra pochi giorni, la notte tra il 27 e il 28 luglio, ricorre il 27° anniversario degli attentati mafiosi a due chiese romane, a conclusione del biennio orribile che era iniziato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Attorno alla mezzanotte, due Fiat Uno imbottite di esplosivo furono fatte esplodere quasi contemporaneamente davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro e presso l’obelisco di piazza San Giovanni in Laterano.

Furono due attentati molto particolari.

Non fecero morti, che le sedi e gli orari scelti rendevano improbabili, anche se vi furono 22 feriti e molti danni materiali. La mafia, di solito, mira alla strage. Anche la rivendicazione fu ambigua: la “falange armata”.

Ma le sedi scelte parlavano chiaro. Il messaggio, quella volta, non era indirizzato allo Stato, ma alla Chiesa che, per bocca di Giovanni Paolo II, aveva tuonato contro cosa nostra. Irritando Riina, che si era stupito del fatto che il Papa predicasse contro di loro, che erano (cito testualmente) “gente così educata”, notoriamente religiosa, devota ai santi e rispettosa nei confronti delle tradizioni cristiane. Con l’eccezione, magari, di qualche piccolo particolare: l’amore verso il prossimo, il rispetto per la vita umana. Ma si sa: nessuno è perfetto.

San Giorgio e San Giovanni sono chiese antichissime, tra i primi luoghi di culto cristiani a Roma. San Giovanni, poi, è la chiesa del Vescovo di Roma consacrata al tempo di Costantino al “Santissimo Salvatore”. Quelle bombe andavano a colpire simbolicamente una tradizione più che millenaria, che un Papa “maleducato” aveva voluto rompere, rompendo il silenzio sulla mafia. Facevano capire che cosa nostra non aveva remore: i suoi nemici, tutti, potevano essere colpiti. Direttamente o simbolicamente.

Ma la bomba di San Giovanni colpì anche un’altra realtà: l’edificio dell’antico Ospedale del Salvatore (il bel palazzo dell’orologio antistante l’obelisco) e una vecchia chiesa, posta lì accanto, all’epoca utilizzata per il ricovero dei pazienti psichiatrici: una sistemazione di fortuna che testimonia della poca voglia di spendere soldi per quei cittadini di serie B che si curano negli ospedali pubblici italiani.

Di questi “effetti collaterali” poco si è detto sui mezzi di informazione.

In una camera dell’Ospedale del Salvatore, la dottoressa in turno di guardia per il reparto psichiatrico stava leggendo, era una serata tranquilla. Improvvisamente un’esplosione, assordante, la scosse – anche fisicamente – la terrorizzò. Sembrava una bomba… ma in tempo di pace? Forse il gas, un terribile incidente, certo non qualcosa di poco conto. Ma intanto metà del soffitto, per fortuna dal lato opposto della stanza, crollò. Accecata e soffocata dal fumo e dalla polvere, la dottoressa cercò a tentoni la porta, uscì nel corridoio. Appena in tempo, prima che crollasse l’altra metà del soffitto, che l’avrebbe sepolta sotto le macerie.

Si precipitò fuori, ma non verso il pronto soccorso. Andò di corsa verso la chiesa-reparto psichiatrico, per vedere se anche lì ci fossero stati danni, magari anche feriti. I vetri delle finestre erano in frantumi, regnava la più grande confusione. Alcuni pazienti erano terrorizzati, coperti di sangue, ma per fortuna nessuno sembrava ferito seriamente.

Per fortuna o per provvidenza.

Gli infermieri, anche loro terrorizzati, cercavano di calmare e curare i pazienti, alcuni dei quali si erano strappati via l’ago della flebo, pronti istintivamente a fuggire: ecco perché tutto quel sangue!

Ma nessuno sapeva, nessuno aveva la benché minima idea di che cosa fosse successo. C’era ancora pericolo? Forse, ma intanto bisognava fare tutto il necessario… anche se nessuno sapeva bene che cosa fosse necessario.

Comunque, nessuno lasciò il suo posto di lavoro, nessuno venne meno ai suoi compiti, pur nell’incertezza di quell’evento che, ancora, non aveva nome, ma comunque faceva paura. Bisognava mettere in sicurezza quelle persone indifese, magari sedate, contenute in trattamento sanitario obbligatorio. Affidate alle cure di persone altrettanto indifese contro quel qualcosa di ancora sconosciuto, ma certamente minaccioso.

La dottoressa mandò velocemente un messaggio a casa: sto bene, non preoccuparti. Ma a casa nessuno aveva sentito il grande botto dell’esplosione, nessuno era, ancora, in allarme.

Alcuni medici del San Giovanni, che avevano avuto sentore dell’accaduto, si precipitarono a dare man forte ai colleghi di turno. Spontaneamente, nessuno li aveva chiamati.

Intanto le ore passavano, giungeva qualche notizia. Forse davvero una bomba, un attentato…

Si provvedeva ai pazienti, da confortare, curare, tranquillizzare, trasferire, infine, in un luogo più sicuro.

Si fa giorno, la tensione si allenta, la città si sveglia, scossa, sconcertata. Si cerca di riprendere in mano la situazione.

La dottoressa è convocata in direzione sanitaria. Racconta l’accaduto. Loda il comportamento di tutto il personale: nessuno è fuggito, tutti lì a fare quel che era necessario. Il coraggio della normalità. Propone di scrivere un encomio per quelle persone così normalmente coraggiose. Ma la direzione sanitaria è distratta, non dà seguito a quella richiesta.

Per fortuna che la virtù è premio a se stessa: tanto agli altri non gliene frega niente.

Questo episodio poco noto, di cui i giornalisti non si sono nemmeno accorti, fa da contraltare ai tanti fatti che la pandemia di oggi ha messo in evidenza. C’è sempre chi si prodiga, facendo il proprio dovere e spesso andando oltre, sconfinando in una spontanea generosità, qualche volta nell’abnegazione. Qualche volta raccogliendo gratitudine, più spesso nell’indifferenza generale. Solo per questo la mafia non ha vinto. Solo per questo abbiamo un futuro, nonostante la mediocrità della politica e la pochezza di tanti direttori sanitari.

Ma io, almeno, vorrei dire grazie a quelle persone e a quella dottoressa, che si preoccupava di farmi sapere che stava bene, in quella drammatica notte.

di Cesare Pirozzi

 

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