Le giocatrici di basket che aiutano il campo profughi di Shatila

Amina, Lana e Rola fanno parte del Palestine youth club, una squadra di basket femminile fondata a Shatila (Libano) nel 2012 da Majdi, un uomo brizzolato e carismatico di 48 anni, che da due anni già allenava una squadra di calcio maschile. Da quando il governo libanese ha imposto in tutto il paese le restrizioni per contenere la diffusione del coronavirus, a marzo, gli allenamenti sono stati sospesi. Ma le ragazze e l’allenatore sono impegnati in un nuovo progetto: consegnare aiuti alimentari ad alcune delle famiglie più bisognose del campo, dove la povertà e la disoccupazione dilagavano già prima della pandemia. “Nel primo giro abbiamo consegnato beni di prima necessità, come pasta, olio e riso. La seconda volta abbiamo optato per frutta e verdura”, ci racconta una delle ragazze al telefono.

La raccolta fondi che ha finanziato la distribuzione degli aiuti è stata organizzata da Basket beats borders, un progetto nato a gennaio 2017 dall’incontro dell’allenatore Majdi con David e Daniele, due ragazzi italiani con alle spalle un passato da volontari nei campi per migranti in Grecia e Bulgaria. L’idea era quella di creare dei legami tra la squadra di basket femminile e realtà simili in altri paesi, estendere attraverso lo sport, la cultura della solidarietà in luoghi accomunati dalle stesse problematiche.

Così a Roma Daniele ha coinvolto gli All reds basket, una squadra legata al centro sociale Acrobax che a sua volta ha esteso il progetto ad altre due formazioni romane. “L’idea è abbattere dei confini geopolitici, culturali e linguistici attraverso lo sport”, spiega Marco di All reds baskets. Così, nonostante le difficoltà burocratiche, le ragazze della squadra di Majdi hanno visitato Roma per due volte, nel giugno del 2017 e del 2018, e hanno trascorso una settimana a fare allenamenti, a giocare partite e a conoscere le realtà sociali. Nel 2019 il progetto è arrivato nei Paesi Baschi e nell’ottobre di quell’anno fu una delegazione italiana ad andare a Beirut in concomitanza dell’inizio delle proteste antigovernative nella capitale libanese.

Poi altri progetti sono stati bloccati dall’arrivo della pandemia e tutti i viaggi sono stati rimandati a data da destinarsi.

Tuttavia il progetto non si è arrestato come ci conferma Marco: “Confrontandoci con Majdi e tenendo conto della situazione che si stava creando in Libano con le misure prese per contrastare il covid-19, abbiamo deciso di concentrare i nostri sforzi per aiutare quante più famiglie all’interno del campo, lanciando il crowdfounding a marzo”. Majdi e le ragazze hanno preparato una lista delle famiglie più in difficoltà, hanno organizzato gli acquisti, usando come luogo di raccolta il centro giovanile finanziato con una

antecedente campagna di Basket beats borders, e poi hanno fatto la distribuzione porta a porta.

La situazione è drammatica se non fosse per questi incondizionati gesti di solidarietà che travalicano ogni confine geografico.

“A causa dell’emergenza sanitaria molti abitanti del campo hanno perso il lavoro e le famiglie si sono trovate senza soldi per comprare da mangiare”, dice Rola, che ha 19 anni, è la capitana della squadra di basket e frequenta il secondo anno di economia aziendale all’università di Beirut. Con i quasi cinquemila euro raccolti finora sono state organizzate tre consegne per cento famiglie e la distribuzione dovrebbe concludersi a metà giugno.

Il lockdown, lo possiamo immaginare, ha colpito gli abitanti di Shatila che, come quelli di altri undici campi profughi sovraffollati sparsi per il Libano, lavorano soprattutto nell’economia informale, dato che è stato loro precluso l’accesso a una miriadi di professioni. Dunque la disoccupazione è altissima e la crisi finanziaria che ha colpito il paese ha fatto perdere alla lira libanese il 60% del suo valore. Poi, la scarsità di dollari americani ha reso difficile importare carburante, medicinali, grano e altri beni di prima necessità. Tutto questo ha a sua volta causato un’impennata dei prezzi alimentari.

Tale situazione colpisce i profughi il triplo rispetto ai libanesi.

Il campo profughi di Shatila, uno dei più grandi del Libano, fu costruito nel 1949 per accogliere i profughi palestinesi cacciati dalle loro terre in seguito alla nascita di Israele. Inizialmente pensato per cinquecento unità abitative, da allora il campo è cresciuto di dieci volte, sviluppandosi soprattutto in verticale, con l’aggiunta di piani agli edifici già esistenti. Negli anni ai palestinesi si sono aggiunti profughi provenienti da altri paesi, dalla Siria soprattutto, ma anche da Marocco, Yemen, Sri Lanka, Bangladesh ed Egitto, e sono arrivati anche alcuni libanesi poveri. Il campo può essere un terreno fertile per la diffusione del covid-19. Famiglie numerose vivono in appartamenti piccoli, spesso composti da una sola stanza. Le condizioni igieniche sono precarie, rifiuti e sporcizia sono sparsi ovunque e i cavi dell’elettricità penzolano accanto ai tubi dell’acqua lungo gli stretti vicoli bui.

In questa drammatica realtà, conferma Majdi, abbiamo sempre cercato di renderci utili all’interno del campo, c’è un legame tra noi e gli abitanti perché lo sport fa parte della società. Il nostro impegno è stare al fianco delle persone. Non giochiamo solo a basket, facciamo molte altre cose per la comunità. Cerchiamo sempre di aiutare e di creare legami con l’esterno, con il resto del paese e con tutto il mondo.

Eppure tutta questa profusione di iniziative, di collaborazioni, di tentativi di cercare aiuti economici, tutta questa rete di forte solidarietà, di ferma risolutezza a mettere in atto ardue scelte ed energie personali, sembra ad oggi sortire il minimo del risultato sperato.

E allora speriamo che in questo mondo che spesso ruota in modo anomalo, ci siano altri Amina, Lana, Rola, Majdi, David e Daniele.

Tanti di loro a fare tanti di noi. Perché sempre ognuno nel suo piccolo può fare quel poco che potrebbe bastare a cambiare il mondo, almeno una parte di esso, la parte più povera di chi tende una mano che sta a noi afferrare e a cui aggrapparsi. Ricordiamoci che la solidarietà è un frutto che cresce sull’albero di un’umanità evoluta e civile.

di Stefania Lastoria

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