“Pezzi dello Stato hanno consegnato mio padre ai killer

Pezzi dello Stato hanno consegnato mio padre ai killer. Lui che aveva deciso di aiutare lo Stato per sconfiggere la mafia”. Lui, Luigi Ilardo, era il capomafia della Provincia di Caltanissetta, cugino di Giuseppe “Piddu” Madonia. Dopo 11 anni di carcere per mafia nel 1993 aveva deciso di cambiare vita e fece ciò che nessuno aveva mai fatto prima (e neanche dopo): continuò a far finta di appartenere a cosa nostra ma lo fece come “infiltrato”.

Iniziò a collaborare con la Direzione Investigativa Antimafia (DIA), come confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, con il nome in codice “Oriente”. “Il gioco è iniziato, colonnello”. Disse Ilardo a Riccio, annunciando di esser stato reintegrato all’interno di cosa nostra, dopo aver ripreso i rapporti con i “picciotti”.

E con la sua (rischiosissima) decisione, “consegno’” Provenzano agli inquirenti, peccato che – nei fatti – nessuno all’epoca lo volle arrestare. A raccontare all’AGI Luigi Ilardo, è la figlia, Luana. Dopo anni di silenziosa sofferenza, Luana vuole “riscattare” la memoria del padre.

“La sua collaborazione ha consentito agli inquirenti di assicurare alla giustizia, nel corso di 3 anni – commenta Luana Ilardo – boss di primissimo piano appartenenti a diverse famiglie mafiose delle province di Messina, Catania e Caltanissetta”.

Rivelò tutto quello che sapeva, “su mafia, politica e massoneria”. Poi, il 10 maggio 1996, fu ucciso, a Catania. “Una talpa nelle istituzioni – racconta Luana Ilardo – rimasta ancora oggi senza nome, aveva svelato il suo ruolo di infiltrato. Qualcuno, all’interno dello Stato, aveva paura delle verità che mio padre stava rivelando“.

Tornando a Provenzano, grazie a Ilardo il 31 ottobre 1995 si sarebbe potuto catturare l’allora superlatitante. Catturarlo 11 anni prima del suo arresto, avvenuto poi l’11 aprile del 2006. “Mio padre era riuscito ad indicare agli inquirenti dove si sarebbe tenuto il summit di mafia con Provenzano, in una masseria di Mezzojuso. Accettò di partecipare con una cintura di microspie, rischiando la vita. Nonostante il rischio enorme che si era preso, però, i carabinieri del Ros, guidati da Mario Mori e da Mauro Obinu, decisero di non effettuare il blitz. E quindi, incredibilmente, di non arrestare Provenzano e gli altri”.

Ilardo non si arrese e continuò a fare da confidente al colonnello Riccio, fino al giorno in cui disse di voler intraprendere ufficialmente la collaborazione con la giustizia. Siamo ai primi di maggio del 1996, pochi giorni prima della sua morte.

“Mio padre venne portato al Comando del R.O.S. a Roma dal colonello Riccio: fu a lui che aveva praticamente affidato la propria vita, tanto da dare il suo nome ad uno dei miei fratelli. Quel giorno erano presenti i magistrati Tinebra, Caselli e Principato. Disse tutto ciò che sapeva, ed era tantissimo ma si disse che le sue dichiarazioni sarebbero state verbalizzate in un successivo incontro a Palermo. Incredibilmente non vi fu il tempo”.

La sera del 10 maggio del 1996 Luigi Ilardo venne ucciso brutalmente, mentre si trovava sotto casa. “Lo abbracciai – racconta Luana – da quel giorno non fu più niente uguale e fummo completamente abbandonati da quello Stato a cui mio padre si era affidato. Da tutti, anzi quasi da tutti. Devo dire grazie al magistrato Pasquale Pacifico, ad Alessandro Scuderi ed al signor Pippo. È grazie a loro che venne riaperto il processo”.

Ad ordinare l’assassinio il cugino, “Piddu” Madonia e Vincenzo “Turi” Santapaola. Nella motivazione della sentenza emerge che, sullo sfondo del delitto, vi sono state le classiche false accuse, il tipico “mascariamento” siciliano, come il coinvolgimento di Ilardo nell’omicidio dell’avvocato Serafino Famà o il fatto che si fosse intascato i soldi di alcune estorsioni. È certo però che la condanna a morte di cosa nostra venne emessa quando quella “talpa” rivelò la collaborazione di Ilardo. Il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè ha raccontato che la notizia fu persino recapitata a Bernardo Provenzano che “aveva deciso la sua uccisione, chiedendo a lui di occuparsene”.

Luana Ilardo sa bene che suo padre fosse un “uomo della mafia, ma non ne aveva l’indole, lo divenne soltanto perché nacque in quella famiglia. Se avesse avuto la fortuna di nascere in un’altra famiglia, avrebbe studiato per diventare un professionista. Magari la sua passione per i cavalli sarebbe diventata la sua professione”.

E per spiegare questo concetto, Luana precisa come “anche dal punto di vista delle imputazioni, mai mio padre venne accusato di omicidi o di altri feroci crimini. Mai”. E “nella sua unica deposizione scritta, disse di volersi totalmente dissociare da idee che portarono, ad esempio, alla morte del piccolo Giuseppe Di Matteo o della moglie di Nitto Santapaola”.

Oggi Luana è una mamma che lotta per la memoria e la verità da raccontare alla figlia. “Credo nelle Istituzioni, nonostante tutto, perché ci sono tante persone per bene che ne fanno parte, di quelle veramente sane. A loro chiedo che a mio padre sia riconosciuto lo status di collaboratore. È assurdo che per la mafia sia il traditore e per lo Stato non sia collaboratore. Questo limbo, ad oggi infinito – spiega Luana Ilardo – non ha dato una giusta collocazione né a lui, né a noi figli, dando vita a infiniti pregiudizi con i quali ancora oggi conviviamo. Penso che le Istituzioni gli debbano almeno questo, un innegabile e documentato riconoscimento per ciò che ha fatto. Mentre a mia figlia voglio spiegare chi fosse realmente suo nonno e, con lei, voglio spiegarlo a tutti. Io amo mio padre più della mia stessa vita”. 

di Paolo Borrometi

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