Jessica legge Steinbeck

“Sulle terre rosse e su una parte delle terre grigie dell’Oklaoma le ultime piogge furono leggere, e non lasciarono traccia sui terreni arati”. L’incipit di Furore, il romanzo di Steinbeck che ha sconvolto l’America nel 1939 e pubblicato, coraggiosamente in Italia, da Bompiani e perseguitato dalla censura fascista, ci riporta ai cambiamenti climatici dei nostri giorni. Così attuale, Furore, è una coltellata a sangue freddo nel costato, ci risveglia dalle nostre indifferenze e richiama la drammatica attualità dei migranti. I nuovi schiavi dell’era moderna, sfruttati e affamati dai caporali e dai proprietari terrieri, che, proibiscono, a colpi di frusta e anche fucile, di raccogliere, per sfamarsi, la frutta marcia o lasciata sui campi. Un Furore post-moderno, tra le mani di una donna determinata e consapevole, dallo sguardo profondo e tagliente che nulla lascia al caso. Jessica.

Jessica legge Steinbeck sotto l’ombrellone a spicchi giallo-arancione, seduta sulla sdraio, non il lettino freudiano dei bagnanti, ma la semplice, umile sdraio, anch’essa arancione con leggeri bordi gialli, quasi una parure posata sulla sabbia, distante dal mare. Il mare di Jessica, che legge Steinbeck, che porta una collanina d’argento a cui è agganciato un cuore, è il mare di Alba Adriatica e su quella sdraio c’è scritto: H. Flora. Forse il nome di sua madre. Penso di chiederglielo, appena capita il momento giusto, non voglio essere inopportuno. Jessica legge Steinbeck, sulla sdraio, sotto l’ombrellone, la incontro per caso, cerco uno stabilimento balneare dove trascorrere una settimana di vacanza con mia moglie e mio figlio. Lei, si alza, tenendo tra le mani Furore, il romanzo con la R maiuscola, lo chiude mettendo il segno con le dita, mi guarda, mi sorride. Istintivamente penso: “È la prima donna, anzi è la prima persona che vedo leggere Steinbeck sulla spiaggia”. Questo mi colpisce, mi fa strano, piacevolmente strano e poi quel mezzo sorriso appena accennato, è un segno di fiducia. Prendiamo l’ombrellone e i lettini freudiani dei bagnanti, così anche noi possiamo sentirci autorizzati a lamentarci per qualsiasi cosa.Qualsiasi insignificante cosa. Lei no.

Jessica legge Steinbeck, nel cuore gli rimbombano le parole di Tom Joad, il protagonista di Furore, che si chiamava come suo padre: Tom Joad. Parole di un ex carcerato che torna a casa per lavorare la terra, ma non sa che quella terra non c’è più. Così, Jessica legge Steinbeck, e ascolta i suoi bagnati, indifferenti alle vicende drammatiche causate dal Covid, alle migliaia di morti in Brasile, in Africa e in America. È gentile, Jessica è la figlia che le signore in età avanzata non hanno mai avuto, le porge il braccio, le chiede come stanno, le accompagna, lentamente, a piccoli passi, verso l’ombrellone. Le aiuta a sedersi, poi ci parla un po’ prima di tornare a sedersi e riprendere Steinbeck: Furore. Arrivano altri clienti, perlopiù amici e conoscenti. Si lamentano, per il troppo, non valorizzano ciò che hanno, gli manca sempre qualcosa.

Sempre attenta, nulla sfugge, guarda, controlla, aiuta, risolve e raccoglie sassi. I sassi del mare, portati dalle onde sulla spiaggia. Li raccoglie e li ammucchia sotto l’asta della bandiera rossa che segnala il mare mosso. Una piccola bandierina rossa che sventola anche quando è ammainata, il segno della rivolta degli emarginati, degli affamati, il segno del “Furore”. La mattina, la trovi lì. Quando vai a pranzo, lei è ancora lì. Quando torni la trovi lì o sul bagnasciuga. E quando si fa sera, Jessica è lì. Jessica legge Steinbeck, Jessica capisce il mondo perché conosce il mondo. Ma non lo da a vedere. Un po’ Ulisse sotto mentite spoglie, Jessica ascolta, scruta, guarda il mare, guarda l’infinito,  ma lo guarda perché lo ascolta, ne percepisce gli umori, ne sente le grida e il dolore. Jessica legge Steinbeck perché conosce quel dolore, quelle ingiustizie, quelle umiliazioni, prima ancora di leggerle. Sente la voce del mare, perché Lei è il mare.

Il mare dentro il ventre,  il mare dove tanti Tom Joad sono morti e hanno gridato chiedendo aiuto, e noi invece di aiutarli abbiamo sparso kerosene sulle arance che potevano salvargli la vita. Jessica legge Steibeck, non ha bisogno di raccontarmi ciò che legge, me lo fa capire con lo sguardo, con quegli occhi che guardano il mare oltre l’orizzonte, che si commuovono e piangono, di nascosto, tra una pagina e l’altra. Sguardi intensi,  oltre la vita che è la sua vita, fatta di cose semplici ma importanti, fatte nel rispetto di ciò che ha imparato su quella sdraia con la scritta H. Flora che forse era sua madre, glielo chiederò, senza essere indiscreto. Jessica che parla a bassa voce, si muove lentamente senza interferire con il vento, anzi lasciandosi trasportare un po’ come le rondinelle di mare.  

Un tono delicato, assomiglia ad un tramonto romantico, anche quando  sussurra,  con le onde, le parole di Steinbeck: “ La terra è feconda, i filari sono ordinati, i tronchi sono robusti, la frutta matura. E i bambini affetti da pellagra devono morire perché da un’arancia non si riesce a cavare profitto. E i coroner devono scrivere sui certificati “morto per denutrizione” perché il cibo deve marcire, va costretto a marcire…Gli affamati arrivano con le reticelle per ripescare le patate buttate nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano con i catorci sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le trovano zuppe di kerosene.

Allora restano immobili a guardare le patate trascinante dalla corrente, ad ascoltare gli strilli di maiali sgozzati  nei fossi e ricoperti di calce viva, a guardare montagne di arance che si sciolgono in una poltiglia putrida; e nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia…” quel furore, nel cuore di Jessica che legge Steinbeck, è amore. Amore che accoglie.  Amore per il mare e per le genti affamate che da sempre l’attraversano. Perché Jessica è il mare, il “Furore” del mare, che con amore, lei, trasmuta in amore.

di Eligio Scatolini

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