Canzone per le vittime della strage di Bologna

“quis est iste qui venit”.

Se veniamo a quest’ora di notte none certo per farti impaurire ma ne abbiamo bussate di porte solo tu sei venuto ad aprire.

E perdona se siamo stravolti

sai che i morti non sono mai belli sarà il gas che c’ha bruciato gli occhi sarà il fuoco che c’ha arso i capelli.

Non t’inganni se senti i respiri non é solo il rumore del vento siamo ancora nel regno dei vivi benché vivi non siam più da tempo

perché abitiamo in un regno di morti

che per noi non è altro che un treno ci fanno ombra binari contorti

come gli alberi di un cimitero.

Ma stanotte ci siamo svegliati per venire a parlar con qualcuno non temere se siamo sbiancati é l’effetto del crollo di un muro.

E ti abbiamo portato in omaggio qualcosa dal bar della stazione

le lasagne col sugo e il formaggio

che a Bologna son sempre più buone.

E a Bologna ti abbiamo notato che seguivi in disparte il corteo non volevi le esequie di Stato pere almeno rispetta un corteo.

Che cos’è che ti ha spinto a venire? Forse il fatto di come siam morti? Ci vuol poco talvolta a morire

molto a avere paura dei morii.

E’ per questo che noi ti preghiamo di salire sul treno per Roma

non temere che noi ti seguiamo se qualcuno [allarme non suona.

Sarà il fatto che siamo fantasmi che talvolta dobbiamo apparire per sederci vicine ai compagni ma qualcuno può anche non capire.

E arrivati che saremo a Roma fa’ tu in modo di metterci in fila un corteo di novanta persone non si vede dal tempo del Cile.

E conducici tutti schierati

dal governo che c’ha seppelliti loro sanno che siamo saltati salteremo nei loro vestiti.

E la morte sarà assicurata

ma noi non sentiremo dolore ben più tragica fine abbiam fatta che morir di un attacco di cuore.

Ora mettiti un poco a dormire che noi intanto facciamo i biglietti domattina dovremo partire

con il treno delle dieci e venti.

Maurizio Chiararia Roma, 1980

Scrivere una canzone secondo i canoni classici di un racconto di fantasmi, e soprattutto cantarla, non é stata un’impresa facile. Il prime pericolo era quello di cadere nel granguignolesco, se non addirittura nel ridicolo. L’uso di un genere letterario comporta necessariamente una parodia dello stesso. E la parodia tende all’esagerazione e allo stravolgimento. in questo caso, per evitare la prima e il secondo, c’era bisogno di un punto di vista e quindi, non potendo usare il discorse oggettivo e descrittivo, sono ricorso a quello soggettivo. Chi parla infatti sono i morti della strage di Bologna i quali, senza grandi proclami od accuse, ritornano sulla terra come fantasmi, come ectoplasmi, non evocati da nessuno ma convinti che, in quanto fantasmi, talvolta si debba apparire. E apparire dove? Nella stazione. Come? Sotto forma di corpi straziati dall’esplosione. Perché? Non per impaurire ma per mettere in atto una sorta di pena del contrappasso: loro sono saltati in aria e da morti salteranno nei vestiti dei rappresentanti del governo per farli morire di spavento. E [impresa non sarà facile perché “ci vuol molto ad avere paura dei morti:. (tra parentesi la quartina in oggetto fu citata, estrapolandola dall’intera canzone, dalla Rivista di Roberto Roversi di quegli anni, che raccoglieva e pubblicava appunto testimonianze e racconti sulla strage). Tutto questo si realizzerà richiedendo l’aiuto dell’unica persona disposta ad ascoltarli e guardarli senza timore e a cui saranno grati e solleciti di attenzioni fino alla fine della storia. L’unica persona, il poeta, appunto, forse l’unico depositarlo di un po’ di pietà, l’unico in grado di ‘poetizzare, di rendere più lieve, attraverso le parole, il ricordo della strage. il poeta che non si fa giustiziere, vendicatore ma sola accompagnatore, come Ermes con Euridice, dei defunti fuori dall’Ade, un Virgilio più che un Dante, un compagno sollecito, un testimone. E il poeta era stato visto e individuato, prescelto per quel compito, proprio ai loro funerali, mentre seguiva in disparte il corteo. E come i dannati che parlano nell’Inferno di Dante, dando giudizi su di lui e persino su persone viventi da lui conosciute, essi si permettono di rimproverare il nuove poeta per il poco rispetto dimostrato nell’atto di render loro omaggio. Questo è un tratto che riconosco del mio comportamento, quello di tenermi in disparte in qualsiasi manifestazione, sia di piazza che di affetti, a costo di scontentare chi vi partecipa invece con convinzione e passione. E la canzone, questa canzone, ancora una volta, come molte mie altre, sembra scritta per sopperire a questa mancanza di dimostrazione di affetto e di convinzione politica. Per questo le canto ancora, cocciutamente, perché so solo io quante cose ho ancora da farmi perdonare.

di Maurizio Chiararia

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