Gli effetti della legge Zan

Poche settimane fa,  Alexandria Ocasio-Cortez, deputata democratica al congresso americano e star della sinistra radicale, è stata ingiuriata da un collega repubblicano, Ted Yoho, con epiteti del tipo “disgustosa, pazza, fuori di testa, fottuta puttana”. Storia di ordinaria misoginia, non fosse per il luogo istituzionale dove si è consumata, la scala del Campidoglio, e per la sfacciataggine con cui il nostro si è poi “scusato” in aula, sostenendo che in quanto buon marito e buon padre di famiglia non aveva certo inteso offenderla. Ocasio-Cortez  in tutta risposta ha esordito con un memorabile intervento sui discorsi d’odio (hate speech) maschile come fenomeni da non considerarsi più incidentali ma strutturali della società americana. Il tutto sostenuto da un intero e collaudato sistema di potere e di complicità.

Il suo strepitoso intervento, fermo e pacato, ripreso da tutti i mezzi di informazione anche in Italia, ci conferma due cose. La prima è che a tutte le latitudini la violenza, verbale e non, contro le donne, contro i gay, lesbiche, transessuali e altri “diversi”, altri “irregolari”, è un problema culturale di sistema e richiede strategie di contrasto. Non solo parole perché ora il vaso è colmo. La seconda è che, sempre a tutte le latitudini, l’efficacia della risposta dipende dalla forza della visibilità e dell’autorevolezza della vittima di turno.

Detto questo sembra ovvio e pacifico che una legge non possa bastare né a scoraggiare chi della violenza ne fa largo uso, né a tutelare chi suo malgrado la subisce.

Stupisce che di questa eccedenza dalla legge delle questioni che hanno a che fare con il sesso, o come si dice adesso con il genere, non ci sia traccia  nella discussione che sta accompagnando l’iter del disegno di legge Zan contro la omotransfobia, estesa in corso d’opera alla misoginia.

Veniamo infatti al disegno di legge Zan, che dovrebbe approdare nell’aula della camera dopo aver esaurito l’esame in commissione. Questa legge, si dice, colma un vuoto: nomina e riconosce gay, lesbiche, transessuali come soggetti particolarmente vulnerabili, dunque meritevoli di una tutela specifica, e codifica come specifiche fattispecie di reato la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi discriminatori basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (casistica poi allargata anche al sesso e al genere), aggiungendole alle analoghe fattispecie su base razziale, etnica e religiosa previste dalla legge Mancino. L’intenzione, ovviamente del tutto condivisibile, è antidiscriminatoria ed egualitaria, e punta a realizzare “quella pari dignità che la costituzione riconosce a ciascuna persona”, oltre che ad allineare la legislazione italiana ad una risoluzione contro l’omotransfobia del parlamento europeo.

Il disegno di legge Zan avrebbe potuto però, ad esempio, come era stato suggerito, introdurre nel codice penale un’aggravante per gli atti lesivi della dignità della persona (tutte le persone, senza ulteriori specificazioni). In questo caso, se si procede in direzione dell’uguaglianza identificando e categorizzando delle differenze – persone gay, lesbiche, transessuali – l’esito inevitabile è quello di un’ulteriore moltiplicazione differenziale e identitaria delle domande di riconoscimento, accompagnata da altrettante denunce di esclusione e misconoscimento.

L’iter della legge Zan lo dimostra già di suo: all’omotransfobia, e ai comportamenti discriminatori basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, sono stati aggiunti in corso d’opera la misoginia e i comportamenti discriminatori basati sul sesso e sul genere, includendo così le donne fra i soggetti da tutelare, ma aprendo al contempo divisioni nel campo femminista, fra chi è favorevole a questa inclusione perché ritiene che le discriminazioni in questione abbiano tutte la stessa radice eteronormativa e chi invece ritiene che essa riduca le donne al rango di una minoranza fra le altre.

Il testo della legge Zan elenca e allinea come atti discriminatori e violenti da sanzionare quelli basati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”. Vengono così per la prima volta trasferiti e cristallizzati in un documento giuridico, termini prelevati dal lessico teorico-politico femminista e lgbtq. Ma mentre nel dibattito teorico-politico si tratta di termini mobili e porosi, spesso controversi e comunque sempre aperti all’interpretazione, alla contestazione e alla negoziazione, trasposti nel linguaggio giuridico gli stessi termini si irrigidiscono e diventano normativi e divisivi.

Il timore che ne consegue è che, pur dando merito alla volontà di dare delle norme a queste problematiche sempre più frequenti, le contestazioni in campo politico ci sono e aumentano con il rischio non solo di non arrivare non dico ad una risoluzione del problema, quanto a mettere almeno dei paletti giuridici per arginare un fenomeno in forte ed esponenziale crescita.

di Stefania Lastoria

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