IL MODELLO GENOVA

L’inaugurazione del ponte San Giorgio di Genova è stata un successo insperato. Non c’erano soltanto le Frecce Tricolori a colorare il cielo della città, ma anche un grandioso arcobaleno, bello e completo come di rado se ne vedono: quasi un segno del destino, un auspicio del cielo per la “rinascita”.

Certo, il nuovo ponte è un’opera buona e utile; certo, la costruzione è stata esemplarmente veloce. Nonostante il dolore mai sopito per le 43 vittime, e l’umiliazione di quel crollo ancora senza colpevoli, come non esserne orgogliosi?

Ma la retorica che questi fatti si stanno portando dietro, e che riempie la bocca dei politici e trabocca dai mezzi di comunicazione… quella no, non mi piace.

Il “modello Genova”, di cui tanto si parla, è da capire meglio, perché è molto ingannevole e rischia di essere l’ennesimo grimaldello usato da una certa politica per scardinare le già mal messe porte che difendono la cittadella del bene comune.

Devo confessare che la donazione del progetto da parte di Piano mi è sembrata, per certi versi, un “coup de théâtre”. Poiché la politica fa sempre teatro, non poteva non accettare l’offerta dell’architetto, che ha potuto piazzare la sua opera senza dover competere con nessun altro. È assai probabile che l’abbia fatto in buona fede e per generosità. Tuttavia, i decisori politici avrebbero dovuto egualmente mettere a confronto il progetto di Piano con qualche alternativa. Non foss’altro che per confermare la bontà della scelta. Se io fossi un progettista di ponti, sarei davvero seccato: perché impedirmi di partecipare ad una selezione? E se il mio progetto fosse migliore? La miscela di campanilismo (Piano è genovese), fretta e opportunismo politico, che ha guidato la scelta, non mi sembra un buon metodo né, soprattutto, un modello da imitare. Per fortuna, Piano è bravo e il ponte è, perlomeno, molto bello. Ma il metodo non può essere trasformato in esempio da seguire: il “modello Genova” deve restare un’eccezione, non saprei dire se criticabile o lodevole.

Soprattutto perché la retorica del modello Genova porta con sé il germe di alcuni aspetti veramente deteriori del discorso e della prassi politica.

Il primo aspetto riguarda la demonizzazione dei vincoli di legge come causa dei ritardi e dei difetti del “sistema Italia”. Aboliamo queste pastoie e tutto andrà meglio: è diventato un mantra che tutti ripetono. In particolare, è diventata una bandiera della proposta politica leghista: Salvini e Fontana promettono che la Lombardia diventerà, sotto la guida del governatore, la prima regione libera dalla burocrazia, con una legge regionale in fieri, che garantirà la “semplificazione” delle procedure burocratiche.

Bella idea. Sulla quale, però, avrei qualche dubbio. Non sulle finalità, che sono sempre encomiabili, ma sui modi e sulle reali conseguenze che, invece, non sono sempre egualmente positivi. D’altronde, Fontana non mi sembra la persona più indicata a guidare una riforma così delicata, ora che si sono scoperti gli altarini sui milioni “scudati” in Svizzera e sui papocchi di famiglia. Sicuri che non agirà pro domo sua?

D’altronde il progetto lombardo ha un significativo precedente storico, anche questo di marca leghista. Mi riferisco all’opera di Calderoli (leghista anche lui) in qualità di ministro delle riforme nel biennio 2004-2006 e di ministro per la semplificazione normativa dal 2008 al 2011. Nel marzo 2010 si è fatto riprendere da tutte le reti televisive mentre dava fuoco a una catasta di scatole di cartone a rappresentare teatralmente – venghino siori venghino! – l’abrogazione di 375.000 leggi in 22 mesi di legislatura.

Ma perché mai si parla ancora della necessità di “semplificazione”, dopo l’opera dirompente di un così efficiente ministro? Non aveva ridotto in cenere tutte le leggi e leggine inutili? Non aveva assicurato risparmi milionari in conseguenza della sua benemerita attività? E, soprattutto, perché il suo stesso partito, che pure quei risultati così eclatanti dovrebbe ricordarli bene, pensa che ancora debba servire una semplificazione?

La risposta è semplice: fu tutta una presa in giro, come sanno bene anche i suoi compagni di partito.

La sua azione è stata, infatti, per certi versi inutile e per altri dannosa.

Inutile, perché ogni nuova legge – un ministro dovrebbe saperlo – produce automaticamente l’abrogazione di tutti gli articoli di legge precedenti, che essa ha cambiato. Di fatto, la maggior parte delle leggi così vistosamente messe al rogo non esistevano già più: lui ne ha bruciato soltanto un inerte simulacro.

In compenso, però, alcune delle leggi abrogate dal prode ministro erano ancora utili: per esempio, la legge che ha soppresso la pena di morte; le leggi istitutive della Corte dei Conti e del Tribunale per i Minori; le leggi istitutive di alcuni comuni e parchi naturali; e, per finire, le leggi sul controllo degli alimenti. Fu necessario un decreto “salva leggi” subito dopo l’approvazione del decreto “taglia leggi”, più qualche intervento della Corte Costituzionale, per rimediare ai casini provocati da tanta incompetenza: per esempio, i provvedimenti di “semplificazione” avrebbero reso possibile la pena di morte non solo per gli adulti, ma anche per i minori; le sofisticazioni alimentari sarebbero diventate del tutto legali; e nessun pubblico funzionario avrebbe più dovuto risarcire lo Stato in caso di danno erariale.

Sviste? Troppo spesso i provvedimenti politici lasciano il dubbio se siano fatti per stupidità o malafede. Quel che è certo, è che il suo fu un vero e proprio tentato omicidio dello stato di diritto, camuffato da “semplificazione”.

D’altronde, si tratta dello stesso personaggio che ha offeso una ministra italiana per il solo motivo che avesse la pelle scura; e che ha provocato la morte di dodici persone in Libia per essersi presentato in televisione indossando una maglietta con la caricatura di Maometto. Per la prima bravata è stato condannato per diffamazione con l’aggravante dell’odio razziale; per la seconda è rimasto impunito. Per i provvedimenti demenziali di “semplificazione normativa”, nessuno lo ha nemmeno rimproverato. Anzi, è sempre in Parlamento, a segnalare come la partitocrazia se ne freghi della decenza e dei cittadini. Prima gli italiani? Forse, i dentisti di Bergamo sono più italiani degli altri!

Ma tutta la messa in scena di Calderoli serviva a nascondere la verità: non sono le vecchie leggi già abrogate ad essere di ostacolo, ma le nuove, quelle fatte da questa classe politica troppo furba. Un esempio per tutti? Proprio la legge che porta il nome di Calderoli, e che lui stesso ha definito una porcata: il famigerato porcellum.

Non nego che la sola idea che Salvini e Fontana vogliano realizzare una riforma così importante nella regione Lombardia mi preoccupa un poco. Non è che faranno come Calderoli? O forse peggio, visto che questi nel suo partito è considerato un esperto, quasi un genio della politica?

L’altro aspetto riguarda l’idea che, per essere efficace, un responsabile politico debba decidere in totale autonomia, senza sottostare ad assurdità come le gare e i controlli. Come se il quadro normativo fosse una palla al piede, non una garanzia per la correttezza dei comportamenti e gli interessi della collettività. Sarà vero – forse – che questo consentirebbe di essere più veloci, ma a me sembra di essere tornato indietro di due secoli, quando le monarchie assolute rifiutavano di assoggettarsi ad una costituzione: cioè a quei vincoli che oggi si pretende di cancellare.

La “casta” rimpiange l’assolutismo, altro che riduzione dei parlamentari!

Sebbene queste cose possano – forse – rendere meno veloce la realizzazione delle opere e rallentare in qualche misura l’economia, tuttavia qualche controllo sarà pur necessario in un Paese martoriato dalla corruzione politica e dalla mafia in tutte le sue declinazioni.

Quel che tanti politici non vogliono vedere, è che per evitare lungaggini dannose e indebite, la burocrazia deve lavorare più alacremente, non essere abolita. Che la giustizia amministrativa e civile deve essere normata da leggi ben fatte ed efficaci, non essere messa da parte e disattivata. Che le leggi devono essere semplici e univoche, ma vincolanti per tutti, compresi i governanti e gli amministratori.

Certo, ci sarebbe bisogno di leggi intelligenti; ma anche qui ci sono dei precedenti storici. Mi riferisco alle azioni di riforma della pubblica amministrazione iniziate con l’approfondito studio “sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni” di Sabino Cassese, ministro del governo Ciampi, e portate a termine con le leggi Bassanini del 1997-99. Queste azioni hanno realmente inciso sulla “burocrazia”, migliorandone il rapporto con i cittadini. Chiunque abbia la mia età ha vissuto il passaggio da una burocrazia vessatoria, dove la mancia all’usciere era di fatto istituzionalizzata per qualunque certificazione, a servizi più efficaci e ad adempimenti più snelli.

Purtroppo, ai Ciampi, ai Cassese e ai Bassanini sono succeduti i Calderoli, i Salvini e i Fontana. Sebbene non siano poche le riforme di cui avremmo bisogno, la mia impressione è che non sono questi ultimi che ne saprebbero fare di buone. Non hanno né la cultura politica e giuridica che sarebbe necessaria, né l’onestà intellettuale dei loro predecessori.

Ecco perché il “modello Genova” mi puzza di brutta politica, di cambiamento fatto perché nulla cambi, se non in peggio.

Invece, la velocità nel realizzare il ponte dovrebbe farci capire quanto conta la volontà e la capacità di chi governa una certa situazione. Nessuna legge e nessun vincolo burocratico può fermare queste due cose: e se di rado si realizzano è responsabilità della politica, non della burocrazia né delle leggi. Quando le cose non marciano, è perché nessuno spinge per farle marciare.

Ma poi, tra le condizioni poste dall’Europa al finanziamento della crisi post-covid, c’è proprio l’indicazione ad alcune azione riformatrici, volte a contenere i tempi della giustizia, contrastare l’evasione fiscale e la corruzione, e tenere sotto controllo la spesa pubblica. Proprio quel che ci serve, e che le pseudo-riforme leghiste non hanno mai toccato.

Speriamo che il governo abbia la capacità di fare riforme efficaci, che davvero correggano gli inveterati difetti del “sistema Italia”. Come negli anni novanta, quando Ciampi, Cassese e Bassanini seppero agire così incisivamente sul costo del lavoro e sulla burocrazia.

Ora, come allora, abbiamo bisogno di persone serie e di un lavoro serio.

Non di modello Genova, sovranismo e coroncine del Rosario!

di Cesare Pirozzi

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