I sopravvissuti della strage di Ferragosto

Ahmed Omar, 26 anni, sudanese, è uno dei sopravvissuti al naufragio in cui sono morte circa 45 persone. Ha il volto ustionato e pur parlando con un filo di voce, prova a raccontarci l’inferno a cui è scampato.

“Siamo partiti da Zuara (Libia) alle quattro di notte, dopo diverse ore di navigazione il motore ha subito un guasto. Abbiamo chiamato l’Italia, Malta e la Spagna, il gps era rotto e non sapevamo con esattezza dove ci trovassimo. Si vedeva una piattaforma petrolifera ma non capivamo dove fossimo.

Un peschereccio ci ha intercettati, c’era scritto “Captain Salam 181” con a bordo libici e egiziani armati. Ci hanno chiesto se avevamo un telefono satellitare, quando abbiamo detto di si ci hanno chiesto il telefono, in cambio ci avrebbero trainato fino alla costa libica. Abbiamo accettato perché eravamo disperati. Così ci hanno trainati per circa quattro o cinque ore, poi ci hanno chiesto il gps, i nostri telefoni e tutti i soldi che avevamo. Ma noi non avevamo soldi. Da quel momento hanno iniziato a minacciarci, dicendo che ci avrebbero lasciati morire, avevamo finito tutto sia il cibo che l’acqua”.

Secondo Ahmed Omar a quel punto ci sarebbe stata una sparatoria che avrebbe causato l’esplosione del motore dell’imbarcazione e un incendio. Molte persone sarebbero rimaste ferite, altre gravemente ustionate e altre ancora sarebbero cadute in acqua annegando.

A bordo dell’imbarcazione inizialmente c’erano circa ottanta persone e una quarantina sono morte.

Racconta Yonas Hadu, 26 anni, l’unico sopravvissuto eritreo, che ha entrambe le braccia fasciate e il volto ustionato: “Siamo stati riportati indietro in Libia a Zuara, ma una volta lì, coloro che avevano ferite o erano malati sono stati lasciati andar via mentre tutti gli altri sono stati incarcerati dalle autorità libiche in un centro di detenzione”.

Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (Oim), il naufragio del 17 agosto è stato il peggiore dell’anno in termini di decessi lungo la rotta del Mediterraneo centrale, che ormai non è più presidiata da mezzi di soccorso.

L’organizzazione Alarmphone il 15 agosto aveva dato la notizia di un gommone in difficoltà a 30 miglia dalle coste libiche. “Abbiamo contattato tutte le guardie costiere, quella italiana, quella maltese e quella libica, ma non abbiamo ricevuto risposta”, spiega Deanna Dadusc, una volontaria di Alarmphone, che monitora la situazione sulla rotta migratoria più pericolosa del mondo, in assenza di un dispositivo di ricerca e soccorso europeo. “Nessuno ci risponde al telefono”, continua la volontaria. “Stiamo cercando di capire se l’imbarcazione da cui abbiamo ricevuto la chiamata il 15 agosto è la stessa naufragata il 17 agosto”.

E siccome alcuni elementi della ricostruzione fatta dai sopravvissuti arrivati a Zuara non corrisponde con quella dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (Oim) e con le informazioni ricevute dalla guardia costiera libica, si sospetta che potrebbero esserci stati addirittura due naufragi diversi nelle stesse ore.

Per Federico Soda, capomissione dell’Oim in Libia, la Libia non è un paese sicuro in cui le persone possano essere riportate, perché sono sottoposte a detenzione arbitraria e a gravi violazioni dei diritti umani.

“Dal 10 al 17 agosto sono state riportate in Libia 258 persone, mentre 96 hanno raggiunto autonomamente l’Italia e sono sbarcate a Lampedusa e a Pozzallo nella stessa settimana”, conclude Soda. In un comunicato congiunto l’Unhcr e l’Oim hanno espresso “forte preoccupazione per i recenti ritardi nelle operazioni di ricerca e soccorso” e hanno esortato “gli stati a rispondere rapidamente al verificarsi di tali eventi e a mettere a disposizione in modo sistematico e strutturato un porto sicuro per le persone soccorse in mare”.

Negli ultimi giorni sono partite dalla Spagna due navi di soccorso private, la SeaWatch 4 e la Astral dell’ong Open Arms, che tuttavia non hanno ancora raggiunto la zona dei soccorsi. La Mare Jonio è pronta a ripartire dopo un periodo di quarantena. Mentre altre due navi umanitarie – la Ocean Viking e la SeaWatch 2 – sono sotto fermo amministrativo in Italia.

E diventa sempre più difficile e terribile continuare a parlare di questo traffico di carne umana che sembra sparire non solo nelle acque del Mediterraneo ma negli interessi, accordi o non-accordi che si fanno tra i vari governi mentre sovrana, l’ombra di una Europa Unita, sembra rimanere ferma a guardare per volgere poi lo sguardo altrove. Ombre che disegnano una realtà in cui la vita umana è meno di niente e in cui, come sempre, gli interessi economici e non solo, la fanno da padrone. Forse prima di tutto dovremmo soccorrere un frammento di umanità.

di Stefania Lastoria

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