Rossana Rossanda, la compagna ragazza

“La grande madre di una storia irripetibile”, così Norma Rangeri, l’attuale direttrice del quotidiano comunista Il Manifesto, titola il suo editoriale sulla scomparsa di Rossana Rossanda, avvenuta a Roma lo scorso 20 settembre. Sulla pagina campeggia una bella foto di Rossanda che cammina in strada tra Luigi Pintor e Lucio Magri. Con essi – nel 1969 – fonda la rivista mensile Il Manifesto, che poi diventa quotidiano nel 1971. Un quarto fondatore è Valentino Parlato. La quinta Luciana Castellina. Ce ne sono altri di fondatori, ma questi i più noti.

Luigi Pintor è scomparso nel 2003. Lucio Magri nel 2011 si è fatto accompagnare a Bellinzona, in Svizzera, proprio da Rossanda e da un amico medico per confortarlo nel suicidio assistito attraverso cui decide di andarsene a settantanove anni. Valentino Parlato se ne va qualche anno dopo, nel 2017. Di quel mitico gruppo ora compare ancora ai nostri occhi soltanto Luciana Castellina, sempre molto attiva e proficua politicamente, intellettualmente. È stata l’ultima a vedere e a parlare con Rossana Rossanda qualche giorno prima della scomparsa. Tutti e cinque nel 1969 sono radiati, insieme ad altri, dal Partito Comunista Italiano, proprio per avere espresso su quella loro prima pubblicazione tesi considerate eretiche, di rottura con la tradizione e i legami sovietici del comunismo italiano. Pietro Ingrao, le cui posizioni più di sinistra hanno appoggiato, invece, non li sostiene a sua volta, rimane dentro il partito. “Il mio errore più grande,” dice molti, troppi anni dopo, prima di scomparire anche lui nel 2015. 

Una madre severa, scrive oggi l’attuale direttrice de Il Manifesto. Madre di tante ragazze e ragazzi che entusiasti vanno a formare la redazione e l’insieme ideale di quella irripetibile storia. Ragazze e ragazzi cui Rossanda dà piena fiducia, così come Togliatti l’aveva data a lei, nominandola responsabile della Sezione Culturale del Pci. Fiducia e severità sono per lei inseparabili, così come il suo essere considerata madre, pur restando tra quei ragazzi lei stessa ragazza. Quella ragazza, che col nome di battaglia Miranda partecipa attivamente alla Resistenza. E la richiesta di Lucio Magri di accompagnarlo a morire a Bellinzona, cos’è se non l’estremo grido d’aiuto rivolto a una, anzi, alla madre? La quale, però, è anche una compagna di lotta e di idee rimasta ragazza. E cos’è il dolore straziante provato in quell’occasione da Rossanda, cos’è? Dice perentoriamente che non lo avrebbe mai più rifatta una cosa del genere. Non certo perché le manchi il coraggio civile, politico, umano per quel tragico commiato. Anzi. Solo che il permanere della ragazza nella madre non può che farla urlare, non permetterle di inchinarsi, piegarsi, raccogliersi, sciogliersi nella rassegnazione.

Nel 2012 Rossanda lascia burrascosamente il suo giornale, accusando tutta la redazione di essersi ridotta a un “manipolo indisponibile al dialogo”. Norma Rangeri scrive un appassionato editoriale, nel quale respinge con fermezza l’accusa, invitando la fondatrice a tornare sui suoi passi, garantendole che il tempo del confronto “non è scaduto” al Manifesto. E in effetti Rossanda tornerà a scrivere qualche anno dopo sul giornale.

Al succedersi delle generazioni lei apre, squarcia il campo della fiducia, della comprensione, del confronto non solo e non tanto come madre, ma proprio per non smarrire il tesoro aurorale custodito in lei della ragazza. Tessere insieme libertà e comunismo non le è possibile senza tale apertura rinnovata e rinnovatrice. Di tutti i movimenti, anche i più lontani tra essi, dal Femminismo, all’Autonomia Operaia, alle Brigate Rosse, lei è stata interlocutrice e polemizzatrice. Il criticismo antidogmatico, antiretorico per ogni forma esaltata e cristallizzata del pensiero storico e storicista l’aveva appresa dal suo maestro, il filosofo Antonio Banfi. Un criticismo strutturalmente aperto, vicino a quello delle moderne scienze, e proprio per questo irrevocabilmente rigoroso, severo. L’asprezza nei suoi rapporti tanto con i movimenti, quanto con le persone, è tutto in questo nocciolo di alta cultura politica e filosofica critica nella sua formazione di ragazza: antifascista, partigiana, comunista. E questo c’è anche nel famoso “album di famiglia” del Pci che lei, con due editoriali del 28 marzo e del 2 aprile 1978, nel pieno del sequestro di Aldo Moro, rintraccia nell’azione delle Brigate Rosse. L’abbandono del Pci della lotta politica contro l’inamovibilità al potere della Democrazia Cristiana, è connesso alla sua chiusura dogmatica sul piano ideale e culturale. Proprio quella chiusura, però, è un elemento costituente l’intero album di famiglia, riguardante dunque anche la foto delle Br. Eppure non c’è stata nessuna persona vicina come lei alle sbarre degli imputati nell’aula bunker dei processi. A Rossana Rossanda e ai radicali di Marco Pannella si deve l’elezione al Parlamento e la scarcerazione di Toni Negri, uno dei maggiori leader di Autonomia Operaia, ingiustamente accusato di essere capo delle Br e autore del rapimento Moro. Ad alcuni di quegli imputati, per favorire l’ottenimento della loro libertà vigilata, dà poi lavoro all’interno della redazione del Manifesto.

Un lungo capitolo a parte meriterebbe il suo rapporto con il movimento femminista. Rapporto di tempestosa attrazione. Scrive nel 2019: “Quanto al marxismo è una scelta personale e non pretende di essere condivisa: serve a spiegare perché ho esitato un attimo a definirmi “femminista”, anche se credo di esserlo: non c’è battaglia delle donne che io non condivida, talvolta con qualche riserva; non ne ho, penso, nei confronti del testo fatto circolare ora da Non una di meno, che forse avrei scritto in modo a momenti diverso, come mi permetto di dire oggi”. Eppure alla sua commemorazione pubblica in Piazza SS. Apostoli a Roma, questo movimento è assente, a parte qualche prestigiosa presenza e testimonianza personale. La stessa cosa si può dire per gli altri movimenti, appartenenti ai gruppi extraparlamentari, con i quali lei e il suo giornale hanno sempre dialetticamente interloquito e poi difeso senza esitazioni negli anni duri della repressione, seguiti al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro. Ed è forse, paradossalmente questa una delle manifestazioni più evidenti che Rossana Rossanda non appartiene a nessuno. Nessuna e nessuno può dire: la mia Rossanda, come ha affermato la femminista storica Maria Luisa Boccia in quella commemorazione pubblica a Roma. Proprio perché entrava profondamente in ognuna delle parzialità, specificità dei movimenti, impastandosene, alimentandosene aspirava a una ricomposizione del pensiero che travalicasse essa stessa come mera persona individuale, per essere espressione di molte, di molti, madre sempre presente e in cammino del noi. Non nel senso di una somma, ma di una sintesi marxianamente aperta e superiore.   

Il suo libro La ragazza del secolo scorso, del 2005, tra i molti che ha scritto, è oggi il più citato. È il racconto letterariamente elevato della sua vita nella grande storia e di questa dentro la sua esistenza. Narrazione limitata – appunto – al secolo scorso. Si parla da tempo di un suo seguito in via di revisione. Ora, forse, proprio la sua scomparsa ne accelererà l’uscita. Magari scopriremo che la sua vera impronta e improntitudine è quella di svelare la Storia stessa, non tanto quale mater et magistra vitae, quanto eterna ragazza compagna per la quale il tempo non è mai scaduto.

di Riccardo Tavani

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