25 novembre. La lotta alla violenza sulle donne di cui non possiamo fare a meno.

Il 25 novembre non è solo il simbolo di una giornata contro la violenza sulle donne, non lo è mai stato e non può esserlo a maggior ragione in questa epoca storica in cui sono proprio le donne a pagare il prezzo più alto della pandemia.

Le donne sono il paradigma di questo sistema che da anni continua a macerare occupazione smantellare i servizi e comprimere i diritti. Mai come ora c’è così bisogno di parlare di donne, soprattutto di cosa significhi essere donna al tempo del COVID. Sono le donne che maggiormente, negli anni, hanno svolto la funzione di cavie all’interno del grande laboratorio di precarietà e atipicità estesa poi a tutto il mondo del lavoro.

Raccontare le loro storie vuol dire cucire una tela rappresentativa della società in cui viviamo, in un momento storico in cui si sta tornando indietro di quasi un secolo.

Da anni ormai la precarietà e la disoccupazione femminile sono diventati un vero e proprio flagello che affligge il nostro paese che dovrebbe essere basato sul lavoro.

Viene allora da domandarsi se l’essere donna debba essere considerato un fatto discriminatorio. Apparentemente no, ma i fatti raccontano una storia ben diversa, i continui tagli al welfare e allo stato sociale mettono le donne nella condizione di scegliere quotidianamente tra maternità e lavoro. Sono migliaia le donne espulse a causa della gravidanza dal mondo del lavoro.

Il tasso di occupazione delle donne è di 18 punti percentuali più basso di quello degli uomini, il lavoro part time riguarda il 73,2% le donne ed è involontario nel 60,4% dei casi. I redditi complessivi guadagnati dalle donne sul mercato del lavoro sono in media del 25% inferiori rispetto a quelli degli uomini.

La ragione principale riguarda il peso del lavoro di cura dei figli, delle persone anziane non autosufficienti e delle persone con gravi disabilità, che grava sulle spalle delle donne e che è assolutamente sproporzionato fra i generi. Il 65% delle donne fra i 25 e i 49, con figli piccoli fino ai 5 anni, non possono lavorare per motivi legati alla maternità e al lavoro di cura.

Quelle fortunate, che hanno ancora il lavoro, spesso vivono condizioni di lavoro umilianti, contratti precari, turni di lavoro massacranti, diritti compressi e salari da fame.
Una “favola” che vive chi lavora nella grande distribuzione delle catene dei super mercati, con retribuzioni da 700 euro al mese e  dietro i volti sorridenti in cassa, la paura del licenziamento.

Per non parlare delle donne impiegate nelle cooperative sociali, il terzo settore dei servizi sociali e sanitari.

La drammatica ondata di violenza che in questo periodo di pandemia sta colpendo le donne non fa che evidenziare il dramma di un’emergenza sommersa.  Stando all’ultimo rapporto Caritas, le donne che hanno chiesto aiuto da maggio a settembre, subito dopo il lockdown, sono state il 54,4% contro il 50,5% del 2019. 

In questo scenario di emarginazione che relega le donne tra le mura domestiche, senza reddito e lontano dall’emancipazione troppo spesso sbandierata dai media come un totem di modernità, sempre più spesso si consumano violenze ad abusi, fino ad arrivare al femminicidio.

L’ aspetto più drammatico di questa situazione è il profondo senso di solitudine che attanaglia le donne, per non parlare delle donne straniere, voci mute, in un sistema che solo nella discriminazione di genere le vuole uguali ed invisibili come le donne italiane.

A tutto questo si aggiunge un avvio repentino verso lo smantellamento dei servizi  pubblici,  un taglio dei fondi ai  consultori e ai centri antiviolenza, che sono di  vitale importanza per la salvaguardia di genere.

In Italia servono leggi più efficaci e strumenti necessari a tutelare i diritti delle donne. I consultori e i centri anti violenza sono assoggettati ai bilanci regionali e spesso i fondi non sono sufficienti.  La tendenza di molte regioni va drammaticamente nella direzione di uno smantellamento delle strutture pubbliche a beneficio del privato.

Difendersi da questo sistema è davvero difficile per le donne, se non si rimette al centro come priorità assoluta il diritto al lavoro e al reddito sociale e se non si attuano investimenti sul diritto all’assistenza e ai servizi sociali.  

È importante agire in fretta, è necessario mettere nelle agende dei governi la questione della violenza sulle donne, con politiche attive strutturali, con investimenti pubblici al welfare, ai servizi e ai centri anti violenza.

Investendo i fondi sul lavoro e su un reddito diretto come strumento fondamentale di emancipazione e dignità per le donne.

I mesi che verranno saranno difficili e servirà tutta la spinta per ripartire.

Ripartiamo dalle donne, ripartiamo dalle lotte delle donne. Perché il tempo di agire è qui, e ora.

di Susi Ciolella

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