BASTA CHE MI SALVO IO

Tanti anni fa, mio nonno, classe 1899, combattente della Grande Guerra, mi raccontò delle paure, delle angosce, delle privazioni e delle esperienze vissute al fronte, sui monti dell’Italia orientale, per conquistare un qualcosa che lui non aveva mai visto prima e che non avrebbe mai visto né durante la guerra e né tanto meno dopo. Mi parlò degli innumerevoli morti, della orribile carneficina che contò alla fine 650.000 caduti tra i militari e 560.000 vittime tra i civili. Fu una inenarrabile e terrificante ecatombe, tanto è vero che non c’è paese in Italia in cui non vi sia un monumento dedicato ai caduti di quella strage. Subito dopo vi fu il cosiddetto “biennio rosso”, caratterizzato dalla occupazione ed autogestione delle fabbriche del nord da parte degli operai, al quale seguirono la nascita e l’avvento del fascismo. È facilmente immaginabile come, negli anni immediatamente successivi, il rientro nelle loro abitazioni delle tante centinaia di migliaia di reduci abbia prodotto autentici sommovimenti sul piano sociale, dipendenti dalla promessa di assegnazione delle terre, peraltro mai compiutamente mantenuta, a favore dei tanti contadini combattenti. Così come quel rientro favorì una fantasmagorica fioritura di racconti ed aneddoti di vita militare realmente vissuta e, a volte, totalmente immaginifica e favolistica. Ma, almeno riteniamo, non è questa la fattispecie che ci accingiamo a raccontare e che invece, proprio per la sua cruda aderenza alla realtà di quegli anni e, per innumerevoli versi, a quella attuale, così come si sta verificando in esito alla dannosa realtà prodotta dal COVID 19, diventa cartina di tornasole degli sviluppi che la crisi sanitaria, sociale ed economica può assumere.

Il racconto, che abbiamo sentito in due diverse versioni, narra l’approccio di un militare allumierasco, combattente della prima guerra mondiale, alla problematica della abnorme mortalità al fronte ed alla discussione che, evidentemente, non mancava nelle trincee durante i rari momenti di tregua. Si narra che un capitano, evidentemente scarsamente a conoscenza della durezza caratteriale e psicologica dei militari allumieraschi, cresciuti e formati nelle durezze e nelle asperità dei contrafforti della Maggiorana, nei declivi della Fontanaccia, nelle colline della Castellina e nelle asperrime terre della Cava, si sia azzardato a chiedere ad un milite nostrano cosa ne pensasse di tutte quelle morti. Il nostro, il cui soprannome indicava un soggetto all’oscuro non solo della critica della ragion pura o della ragion pratica di kantiana memoria ma addirittura privo della ragione stessa, insomma uno che non sentiva ragioni altrui e che non ne applicava nei confronti del resto del mondo nemmeno una sia pur minima parvenza, si limitò a dare una sgrullata di spalle. Il capitano si innervosì e, sorpreso da tale mancanza di patriottismo, iniziò un pressante interrogatorio davanti al resto della compagnia, che stava accovacciato nella trincea. “Insomma, saresti disposto a sacrificare la tua vita per salvare l’onore della Patria?”. “Signornò” rispose il nostro. “E per salvare il Re d’Italia e la Corona?”. “Signornò” rispose ancora una volta quell’agnostico. L’interrogatorio continuò con tono sempre più adirato da parte dell’incredulo capitano, tirando in ballo l’onore del Reggimento, dell’intero esercito italiano e chi più ne ha più ne metta. Ma la risposta fu sempre una ed inequivocabile: “Signornò”, alla quale fece seguito una spiegazione che viene raccontata, come prima accennato, in due diverse versioni che, per la verità, collimano concettualmente.  Nella prima versione si narra che il nostro eroe, privo di ragione, abbia sbottato, dicendo: “Signor Capitano, pe’ mi pònno morì tutte quelle che avete ditto, basta che me sarvo io”, mentre la seconda versione vuole che la risposta sia stata: “La guerra può anche durare cent’anni, basta che io sopravvivo per tutto il tempo”.

La guerra finì e ci fu chi ritornò alle sue posizioni di comando e chi dovette tornare alla Maggiorana, senza che le promesse di assegnazione delle terre fossero mantenute. Come prevedibile, tutte le illusioni e le successive disillusioni furono incanalate in alvei reazionari e sfociarono in un regime autoritario.

Come si fa a non cogliere le molte analogie di una crisi economica e sociale che bussa tremendamente alle porte? Come si può essere sordi al grido di allarme che viene dal basso? Attenzione, perché la crisi sta investendo ed investirà una larghissima parte di ceto medio e di lavoratori manuali: artigiani, piccoli commercianti, fornitori di servizi, lavoratori stagionali e giornalieri, professionisti, dipendenti della grande distribuzione.

In tale situazione bisognerà far capire ad una immensa pletora di persone che sarà necessario fare sacrifici per fronteggiare una crisi mondiale di cui coglieremo immediatamente l’aspetto nazionale, quello più vicino a noi. Sarà allora la politica che deve guidare ed incanalare sentimenti e prevedibili reazioni. Sarà la politica che deve dimostrare di aver capito il motto ciceroniano: “veramente intelligente è colui che capisce da solo quello che convenga fare: subito dopo viene colui che sa almeno capire le buone indicazioni che gli vengono dagli altri.

Come? Anche se il suggerimento, agli occhi ed alle menti di chi pensa e continua a comportarsi come il nostro, che volutamente abbiamo definito come privo di ragione, può sembrare ed apparire come demagogico, se non addirittura provocatorio, noi riteniamo che hic et nunc, qui e subito, europarlamentari, deputati, senatori, senatori a vita, ministri, consiglieri ed assessori regionali debbono impegnarsi ad attuare una immediata e drastica riduzione delle loro faraoniche indennità che, in un subitaneo futuro provvederemo ad illustrare e dettagliare. Debbono capire che, come in una frase attribuita a Charles Darwin, “non è la specie più forte a sopravvivere, né la più intelligente, ma quella più adatta al cambiamento”. E crediamo che la storia lo abbia ampiamente dimostrato!

di Pietro Lucidi

 
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