I bambini claudicanti e l’epidemia di poliomielite: la testimonianza di Pietro

Scriveva il sociologo A.W. Frank: “Ascoltare una storia di malattia è dare dignità a quella voce”. Ho ascoltato la storia di Pietro, uno delle migliaia di bambini che negli anni ’60 camminavano zoppicando,  con le gambe esili e deformi, per le strade di una Italia ancora  alle prese con la ricostruzione post bellica e la povertà: erano i bambini colpiti dalla polio.

Poi arriveranno i vaccini Salk e Sabin e nel 1966 la vaccinazione sarà resa obbligatoria. Qualcuno ancora ricorda la somministrazione per via orale che avveniva attraverso  uno zuccherino con sopra una goccia colorata. Attualmente  il vaccino Sabin viene somministrato  per via iniettiva. 

Pietro, 73 anni, sposato con due figlie ormai adulte, mi racconta di aver contratto la poliomielite nel 1958, l’anno in cui l’epidemia raggiunse i numeri più alti, con ottomila casi di paralisi e centinaia di morti. La sua gamba sinistra è rimasta piccola come quella di un bambino, e il suo piede è deformato  dalla malattia.

“Era l’inverno del 1958, abitavamo a Collevecchio, vicino Roma. Un giorno di febbraio mi venne una febbre altissima che durò per diversi giorni. Il medico del paese la curò come un’influenza, ma le mie condizioni peggioravano. Una sera mi alzai per andare in bagno e sentii le gambe cedermi. Avevo 11 anni. Non riuscivo più a camminare. Mio padre mi legò dietro la bicicletta e mi portò all’ospedale di Magliano Sabina. Mia madre pregava. In ospedale mi diagnosticarono la poliomielite, mi fecero una inizione lombare e venni trasferito al reparto malattie infettive del Policlinico Umberto I.”

“Come era la situazione negli ospedali?”.

“Era al collasso, insieme a me erano ricoverati tantissimi altri bambini e ragazzi, alcuni completamente deformati dalla polio. Nessun parente poteva farci visita, potevano soltanto portarci un cambio e lasciarlo alle infermiere. Mia madre prendeva il treno tutti i giorni e aspettava che io mi affacciassi alla finestra per salutarla. Ero tra quelli che potevano alzarsi. Per due mesi questo fu l’unico contatto con la mia famiglia. Mi dimisero insieme ad altri bambini, quelli che erano sopravvissuti e guariti o che erano stati colpiti solo agli arti. Io mi sorreggevo con le stampelle. Mia madre era seduta ad aspettarmi sulle scale dell’ospedale. Ricordo che si alzò e mi venne incontro poi, guardando gli altri che uscivano trasportati a braccia, mi disse che eravamo stati fortunati.

“E fuori come è cambiata la sua vita?”

“Iniziai un percorso riabilitativo, mi prescrissero scarpe ortopediche con il rialzo, ma il piede sinistro continuò a deformarsi, crescendo si piegava sempre di più. Anche dentro qualcosa si stava piegando. Non era facile, da bambino, accettare gli sguardi degli altri, gli scimmiottamenti e le risa dietro la mia andatura. Qualche mese prima del matrimonio di mia figlia mi sono sottoposto all’ennesimo intervento per raddrizzare il piede, volevo farle un regalo, volevo camminare dritto verso l’altare. Purtroppo non andò bene”.

“Cosa ne pensa delle discussioni di questi giorni intorno ai vaccini?”

Rimane in silenzio e, con compostezza, scuote la testa.

“Preferisco non rispondere”.

di Nicoletta Iommi

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