Noi vogliamo sempre quella, noi vogliam la libertà

Raramente qualcuno si ferma a guardare il monumento ai caduti che giorno e notte ammonisce chi attraversa l’incrocio più frequentato del paese. un’alta colonna di marmo sovrastata da un angelo di bronzo , il monumento ai caduti della grande guerra è un compianto, una memoria di pietra, fitta di nomi ormai cancellati. Parlerebbe, il monumento, Direbbe, a chi lo volesse ascoltare, che la libertà non è poi così scontata. Che ogni pace è costata una guerra. Che non ha senso morire a vent’anni , che chi ha dato una vita ha avuto in cambio una croce. Il monumento ha la sua bella ghirlanda di fiori e un tricolore mosso dal vento, eppure anche i fiori e la bandiera  passano inosservati. Sarà perché abbiamo la memoria corta, sarà perché siamo ormai vinti dall’abitudine. Sarà perché a volte ci servirebbe un cambio di prospettiva, uno sguardo nuovo, un pensiero che si alzi di un poco. Ci basterebbe sollevarci da terra quanto un balcone da secondo piano, un balcone come quello di Gianni, che sporge dal condominio giusto all’altezza dell’angelo di bronzo, in faccia alla bandiera dell’Italia. Gianni dal suo balcone i nomi non li legge, ma la bandiera la vede: sfinita dagli anni, cotta dal sole e sfrangiata dal vento. Vecchia  e consunta, andrebbe sostituita.

Gianni acquista da solo una nuova bandiera italiana, bianca rossa e verde, coi colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all’Etna: le nevi delle Alpi, l’aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. Non sempre possiamo aspettare che qualcuno faccia qualcosa. A volte tocca a noi prenderci cura degli orizzonti che abbiamo davanti. Gianni, che è  uomo delle forze armate,  sa che la bandiera non è solo un taglio di stoffe cucite insieme, la bandiera  vuole  onore e ha bisogno dei suoi riti. Aspetta dunque che il figlio torni a casa e di notte, anche se non passa nessuno, organizza una cerimonia intima, un alzabandiera per due, sull’attenti e col canto dell’inno nazionale.  La moglie e la figlia dal balcone, al buio, come le stelle  stanno a guardare. E quel che vedono non è cosa da poco: un uomo, un ragazzo, una bandiera, ma anche la precisione di un gesto, un passaggio di consegne, un patto di memoria, di famiglia, di identità.

La bandiera italiana è nata a Reggio Emilia il 7 gennaio del 1797. La settimana scorsa ha compiuto 224 anni. Ha visto Ciro Menotti nei moti del 1831, Giuseppe Mazzini e la Giovine Italia, l’impresa disperata dei Fratelli Bandiera. E’ stata tra gli eroi del 1848, nella Repubblica di Venezia, nelle 5 giornate di Milano, tra gli insorti di Palermo e durante la Repubblica Romana. E’ stata simbolo di tutti: monarchici, repubblicani, democratici e moderati. Con lo stemma sabaudo l’hanno sventolata Garibaldi e i mille partendo da Quarto. Il 17 marzo 1861 tra Cavour e il re  ha visto nascere l’Italia. E’ stata a Porta Pia, e il 13 giugno 1946 ha salutato l’ultimo reale d’Italia. Dal 1948 vive nei tre colori: verde, bianco e rosso, senza stemmi, come vuole la costituzione.

Nata come simbolo di guerra, è diventata simbolo di appartenenza. I simboli dell’Italia non sono molti, ma uno solo è davvero riconoscibile nel mondo, il Tricolore. Da stoffa e sangue in guerra s’è fatta stoffa e sudore nelle competizioni sportive. Si sporge dai davanzali per le vittorie. Festeggia la copertura dei tetti delle case. Colora le facciate delle sedi degli organi governativi, degli uffici giudiziari, delle scuole, dei nostri consolati all’estero. E’ esposta nelle aule di udienza degli organi giudiziari di ogni ordine e grado. Potente veicolo di emozioni, porta con sé l’idea di un gruppo di uomini uniti dallo stesso scopo o addirittura dal medesimo destino. E’ l’idea di una Nazione, da trattare con cura, da non confondere con l’idea di nazionalismo:

“C’è una sottile ma profonda differenza tra nazione e nazionalismo: la nazione che il Tricolore nato a Reggio rappresenta genera speranza, il nazionalismo è un’ideologia che nasce dalla paura e che paura genera”.

di Daniela Baroncini

 

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