L’occupazione fascista e nazista della Slovenia e le Foibe. Falsità, menzogne ed ignoranza storica

La storia in generale è una raccolta di crimini,

follie e sventure tra i quali ogni tanto

incontriamo qualche virtù e qualche momento felice.
(Voltaire)

Per comprendere appieno la drammatica e cruenta vicenda dell’occupazione italiana della Slovenia e di altre parti della Croazia bisogna, necessariamente, sia pure a larghe spanne e necessariamente concise, anche attingendo a larghissima parte della memorialistica e della storiografia, inquadrare la situazione complessiva nei Balcani della guerra in atto e ricordare che il 20 ottobre del 1940 l’esercito italiano iniziò quella che Mussolini definì “una passeggiata” e cioè l’invasione della Grecia. Le cose andarono diversamente e la passeggiata fu duramente contrastata dalla resistenza popolare greca e fu preannunciato un intervento britannico in soccorso del popolo greco. Già nel dicembre del 1940 la cosiddetta passeggiata era finita e Hitler emanò le direttive per l’operazione “Marita” con la quale veniva previsto un massiccio attacco tedesco alla Grecia, lanciato dalla Romania attraverso la Bulgaria. Il 29 gennaio del 1941 la Bulgaria, intimorita dalle truppe tedesche che avevano varcato il confine, cessò ogni resistenza ed aderì al patto Tripartito. Hitler poteva così attaccare la Grecia e completare un altro tassello della prevista Operazione Barbarossa, cioè l’attacco all’Unione Sovietica, progetto per il quale serviva il controllo totale dei Balcani. Il 25 marzo del 1941 il Governo Jugoslavo sottoscrisse a Vienna il Patto Tripartito, scatenando una violenta sollevazione popolare che, dopo soli due giorni, rovesciò il governo e ne cambiò radicalmente la composizione. La reazione di Hitler fu immediata e lo stesso 27 marzo convocò a Berlino il suo Stato Maggiore e si dichiarò, come risulta dai relativi verbali, “deciso ad avviare tutti i preparativi per infrangere la Jugoslavia militarmente e come Stato, senza attendere eventuali dichiarazioni di lealismo da parte del nuovo governo”. Bisognava garantirsi le retrovie e questo fece slittare di oltre un mese l’attacco all’URSS. Lo stesso 27 marzo fu inviato al Duce il seguente messaggio: “La guerra contro la Jugoslavia potrebbe essere molto popolare in Italia, Ungheria e Bulgaria, poiché a questi paesi devono essere fatte intravvedere possibilità di ottenere certi territori: all’Italia la costa dalmata, all’Ungheria il Banato, alla Bulgaria la Macedonia.”

Dopo pochissime ore, alle 3 di notte del 28 marzo, Mussolini così rispose: “Desidero dirvi, Führer, che se la guerra si rendesse inevitabile, essa sarà in Italia molto popolare.

Il 6 aprile Hitler attaccò la Jugoslavia, senza alcuna dichiarazione di guerra, come suo solito, e procedette ad uno spietato bombardamento di Belgrado provocando oltre 20.000 morti. La sera del 5 aprile Mussolini invio al Capo di Stato Maggiore Mario Roatta la seguente disposizione: “All’inizio delle ostilità con la Jugoslavia fate sapere a quanti sono schierati alla frontiera giulia che chiunque, ufficiale, graduato o soldato, ripieghi senza ordini da una posizione che doveva essere difesa ad oltranza, sarà passato immediatamente per le armi.” La guerra fu veramente di brevissima durata. Undici giorni dopo l’attacco l’esercito si era già disintegrato ed il governo jugoslavo e il re Pietro si rifugiarono a Sarajevo (Bosnia) e poi nel Montenegro, donde raggiunsero in volo il territorio degli Alleati.

Strana sorte quella dei Re! Sempre pronti ad autoincensarsi, a sentirsi di altro rango e nobile lignaggio e poi pronti a darsi alla fuga alle prime avvisaglie di pericolo, ovviamente con il bottino al seguito.

Il 21 aprile vi fu la resa incondizionata ed il 23 aprile si procedette alla spartizione territoriale. Inutile dire che la Germania fece la parte del leone, mentre l’Italia si riservò la “provincia” di Lubiana, ciò che era rimasto della Slovenia, nonché considerevoli fette del litorale dalmatico e alcune isole; inoltre assunse il controllo militare del Montenegro nominalmente indipendente e ottenne l’ingrandimento dell’Albania, con l’aggiunta della pianura del Kossovo e di una fetta della Macedonia.

Nei territori occupati ed annessi allo Stato Italiano i fascisti iniziarono quella che per loro era la “pacificazione”: soppressero la stampa locale; imposero l’obbligo di salutare romanamente in pubblico e negli uffici, obbligarono ad italianalizzare il cognome, licenziarono i funzionari pubblici e li sostituirono con italiani, sciolsero le società culturali e sportive slovene e croate, espropriarono i terreni per distribuirli ad ex combattenti italiani, attuarono il trasferimento coatto della popolazione, perché la Slovenia doveva essere italiana e non poteva tollerare la presenza di slavi.

Le violenze, le repressioni, le angherie, i soprusi commessi dai nazisti e dai fascisti stupirono lo stesso Ciano che il 28.4.1941 annota: “Spoliazioni, rapine, uccisioni sono all’ordine del giorno. Le chiese e i conventi devastati e chiusi”.Ma c’è di più, come riporta Giacomo Scotti, nel suo “Bono Italiano”, Roma 2012, a giugno 1941, in occasione dell’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia (come se ci fosse pure da festeggiare per i massacri perpetrati dalle truppe italiane in Albania, in Grecia ed in Slovenia!) Mussolini indicò gli obiettivi da raggiungere sulla costa orientale dell’Adriatico: “Far coincidere a un certo punto i tre elementi: razza, nazione, Stato. Gli Stati che si caricano di troppi elementi alloglotti hanno una vita travagliata. Può essere a volte inevitabile averli, per ragioni di sicurezza strategica. Bisogna adottare verso di essi un trattamento speciale, premessa, beninteso, la loro assoluta lealtà di cittadini verso lo Stato. Comunque quando l’etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversi. Gli scambi di popolazione e l’esodo di parti di esso sono provvidenziali, perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali.”  Insomma, una precisa direttiva, un ordine allucinante ed allucinato, una sorta di ignobile incitamento alla purificazione etnica, un ovvio prosieguo delle leggi razziali del 1938, l’esaltazione e la parola fine di ogni umanesimo e di ogni istinto non bestiale. E tale alta elucubrazione non poteva rimanere senza riscontro (era o non era uno degli slogan “credere, obbedire, combattere”? Anche se, nel momento topico, nella occasione in cui poteva essere data conclusione epica al tanto sbandierato grido fascista “vincere o morire” i valorosi gerarchi fascisti, con in testa il loro capo, eroicamente nascosto sotto un cappotto tedesco, preferirono scappare in modo non certo dignitoso e conseguente alle grida pronunciate per un ventennio, non vincendo e non morendo). Le parole del duce avevano trovato sicuramente terreno fertile tra i fascisti se uno di questi, il telegrafista Cosimo, scrivendo all’amico Raffaele Ippolito, il 30 luglio 1941, così si esprime: “Noi qui facciamo la guerra sul serio contro questa gente che è il popolo meno civilizzato e contro la canaglia comunista …; bevono olio di ricino e ne fuciliamo molti.” Lo storico italiano Angelo Del Boca, nel suo Italiani brava gente? afferma che nella provincia di Lubiana “si era tentata, più che un’italianizzazione rapida e forzata, un’operazione di autentica bonifica etnica” confermata “dall’altissimo numero di uccisi e dei deportati e dalle stesse dichiarazioni di alcuni alti ufficiali.

Ma la follia omicida pervadeva ormai ampia parte dell’apparato militare se è vero che anche il maggiore Giuseppe Agueci, come ancora riportato da Del Boca, afferma: “Gli sloveni dovrebbero essere ammazzati tutti come cani e senza alcuna pietà”.

Civili Jugoslavi in attesa della scarica del plotone d’esecuzione italiano

E decisamente pietà l’era morta se, sempre secondo i dati di Giacomo Scotti, “Fu sterminato il 2,6 per cento della popolazione e furono addirittura il 10 per cento i deportati della regione slovena annessa!”

E la carneficina fu atroce ed inumana con quantificazione delle vittime civili in cifre mostruose e spaventose: “Le perdite subite dalla Jugoslavia in seguito all’occupazione dei tedeschi, italiani, ungheresi e bulgari, furono un milione e 706 mila morti, pari al 10,8 per cento della popolazione presente nel 1941, dei quali oltre 400.000 nei territori occupati o annessi dagli italiani. In questi territori si ebbe la distruzione del 25 per cento delle abitazioni,” Un altro storico, Velimir Terzic, ha calcolato in 749.000 le vittime dell’occupazione italiana: “gli italiani lasciarono dietro di sé il deserto”.

Il 18 giugno 1942 il Generale Italiano Mario Robotti, incriminato per crimini di guerra unitamente al suo precedente Capo di Stato Maggiore generale Mario Roatta, emanava le seguenti precisazioni ad una sua Circolare:

1) i maschi validi trovati in qualsiasi atteggiamento, durante le azioni di combattimento, in aperta campagna dall’avanti sino alla linea di schieramento delle artiglierie, non possono essere considerati (per ovvii motivi) che come ribelli o favoreggiatori dei ribelli. E pertanto saranno passati per le armi.

2) I maschi validi trovati in abitazioni isolate, gruppi di case e centri abitati, sempre quando non rei degli atti contemplati nei precedenti articoli della ordinanza, saranno tutti arrestati. Quelli fra essi che non siano del luogo saranno passati per le armi come quelli incontrati in aperta campagna.”

Questi furono i criteri operativi delle truppe italiane fino all’8 settembre del 1943, ai quali va affiancata la condotta “politica” della guerra che presenta alcuni aspetti fondamentali per comprendere il volto totalitario della politica fascista in quei territori. Infatti, pure con molte contraddizioni e con i limiti di un regime che andava verso la sconfitta, era presente e ampiamente documentato il progetto di “italianizzare” buona parte della provincia di Lubiana, sostituendo la popolazione locale con elementi italiani.

Crimini, assassinii, stragi, violenze indicibili, furti delle case, licenziamenti dagli impieghi e sostituzioni con italiani. Vittime il cui conto oscilla tra un minimalistico 400.000 ad un massimo di 749.000 vittime nella sola area controllata dagli italiani. Questi erano i crimini verso la popolazione civile. 

I dati sopra riportati trovano conferma in uno scritto di Matteo Bressan, analista e componente del Comitato Scientifico della NATO Defense College Foundation e Direttore dell’Osservatorio per la stabilità e la sicurezza del Mediterraneo allargato (OSSMED).

È di tutta evidenza come la situazione non poteva non provocare la reazione della popolazione e di parte dell’esercito che pure si era dissolto al momento dell’invasione straniera. Si formarono, fin dall’estate del 1941, le prime sacche di resistenza all’invasore. La resistenza popolare non doveva essere insignificante ed effimera se già l’11 settembre del 1941 l’Alto commissario per la provincia di Lubiana, centurione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, segretario federale del partito nazionale fascista di Trieste e consigliere nazionale del Partito Emilio Grazioli compilò i “Provvedimenti per la sicurezza dell’ordine pubblico” che prescrivevano la pena capitale o la fucilazione immediata per il passaggio clandestino della frontiera, per detenzione di armi, per atti di sabotaggio, per la propaganda “sovversiva” e per l’aiuto ai “sovversivi”.

Al provvedimento di Grazioli, in seguito all’aumento degli scontri tra popolazioni locali e truppe italiane, si aggiunse il bando con cui Mussolini istituiva a Lubiana il 7 novembre 1941 il tribunale militare di guerra della II Armata, che istruì sino all’8 settembre del 1943 ben 8.737 processi con innumerevoli condanne a morte.

Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942, Roatta, Robotti e Grazioli fanno circondare Lubiana con reticolati di filo spinato: la città diventa così un immenso campo di concentramento. Robotti spiega al Duce il suo “metodo deciso”: “Gli uomini sono nulla”, e comunica la sua intenzione di “arrestare in blocco gli studenti di Lubiana” e, criminalmente, sosteneva che il detto biblico dente per dente, nei confronti dei cittadini sloveni, doveva essere modificato in testa per dente.

Il 24 agosto 1942 Grazioli prospettava al ministero dell’Interno “l’internamento di massa della popolazione slovena” e la sua “sostituzione con la popolazione italiana”. Robotti spiega ai comandanti: “Non importa se all’interrogatorio si ha la sensazione di persone innocue. Quindi sgombero totalitario. Dove passate, levatevi dai piedi tutta la gente che può spararci nella schiena. Non vi preoccupate dei disagi della popolazione. Questo stato di cose l’ha voluto lei, quindi paghi”.
In un altro rapporto, Robotti lamentava: “Si ammazza troppo poco“. Roatta raccomandava l’uso dell’aviazione e dei lanciafiamme per distruggere i paesi.
Ovviamente, in linea con il pensiero nazista, non mancarono i campi di concentramento. Se ne contarono a diverse decine e i più tristemente famosi saranno quelli di Arbe e Gonars.

Oggi non c’è più traccia del campo di Gonars. Nel cimitero del paese sono sepolti 400 internati, ricordati da un grande sacrario costruito nel 1973.
Spiega il sindaco Ivan Cignola: “Ricordare la tragedia e riconoscerne le responsabilità  

italiane non è solo un problema storico, ma anche di sensibilità civile”.

Poi, tralasciando i singoli episodi, i fatti precipitarono: l’Armata Rossa sconfisse i nazisti a Stalingrado, l’8 settembre del 1943 si dissolse il fascismo e fu creata la RSI, l’Armata Rossa iniziò l’avanzata verso Occidente, a giugno del 1944 gli Alleati sbarcarono in Normandia ed il 25 Aprile del 1945 l’insurrezione antifascista mise la parola fine al ventennio. In Jugoslavia l’esercito italiano, come in Russia, si dissolse e i partigiani di Tito presero il controllo di tutto il territorio fino a Trieste.

E qui successe l’irreparabile! Quasi a confermare il pensiero della scrittrice inglese della prima metà dell’ottocento Charlotte Bronte: “Quando siamo colpiti senza ragione, dovremmo colpire a nostra volta per insegnare a chi ci colpisce a non farlo mai più,” si manifestò uno dei più umani e biblici sentimenti: la vendetta! Ha scritto nelle sue memorie un partigiano titino: “Non eravamo noi ad aver attaccato gli italiani. Noi eravamo quelli che avevano subito un attacco” e nonostante la memoria di Nada Milic, internata nel lager di Arbe/Rab e pubblicata sul Corriere di Trieste il 4 marzo 2005 che ha lamentato che in Italia “gli 11.606 internati civili sloveni e croati morti nei sessantasette campi di internamento voluti dal Duce, vittime innocenti di una strategia di disumanizzazione e di annientamento realizzata sull’isola di Arbe/Rab (…) non hanno oggi nessuno che li difende o che si ricordi di loro” noi continuiamo a ribadire che nessuna guerra, qualunque ne sia la motivazione, può giustificare il sacrificio di vite umane inermi ed innocenti.          

Nonostante in nome della verità storica non possa essere sottaciuto tutto quello che ha preceduto le Foibe e l’esodo degli italiani dalle terre restituite alla Jugoslavia, come sopra abbiamo ricordato, sia pure sommariamente, va detto subito, a scanso di equivoci, che il terrore fascista in Istria, nella costa slovena e croata e in Dalmazia non può in alcun modo giustificare i crimini commessi dopo la guerra dalle formazioni partigiane di Tito.

Anche se non c’è stato rapporto tra il numero delle vittime infoibate e quelle massacrate dai fascisti, da una parte poche migliaia mentre dall’altra, come visto, centinaia e centinaia di migliaia, bisogna sempre tener conto che la guerra e la violenza non hanno mai risolto una controversia tra umani e che generano e producono rese dei conti individuali e criminali, le vendette ed i vandalismi dei vincitori.

Sarebbe pertanto auspicabile che le Istituzioni della nostra piccola comunità, con in prima fila quella scolastica, facessero tesoro di verità storiche che vengono distorte in nome di una sorta di revanscismo ingiustificato ed ingiustificabile che denota solo ed esclusivamente malafede o, nella migliore delle ipotesi, ignoranza storica e, semmai volessero, aprissero anche dibattiti sulla realtà storica e non monologhi, come avvenuto in un recente passato.

di Pietro Lucidi

 

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