Sull’educazione: senso e complessità del lavoro educativo

“Un educatore (…), è un fondatore di mondi, un mediatore di speranze, un pastore di progetti. Non saprei come formare l’educatore. Forse perché non è né necessario né possibile…Necessario è invece risvegliarlo. E forse, risvegliandosi, ripeterà il miracolo di far nascere mondi nuovi”.

Rubem Alves

La riflessione pedagogica ha sempre giocato tre carte lessicali: istruzione, formazione, educazione, termini a volte coincidenti a volte distinti e distanti in relazione ai tempi e ai paradigmi storico-culturali.

Il concetto di istruzione è legato alle conoscenze e ai saperi, dall’alfabetizzazione primaria fino alle elaborazioni più complesse. Il concetto di formazione – la paideia greca, la romana institutio e la tedesca Bildung – indica l’atto di accompagnare il bambino alla costituzione di un’adultità etico-conoscitiva autonoma, alla conoscenza del bello e del buono. Il concetto di educazione, infine, può avere una duplice radice: può derivare il suo significato da e-ducere (trarre fuori dando una forma) o da edere, che indica il mangiare, il consumare e il nutrire (e dunque il crescere e l’allevare). Istruzione ed educazione sono i termini, a volte coincidenti e a volte conflittuali, con cui si scrive la storia e la pratica della formazione. [1]

Massimo Recalcati, riprendendo Riccardo Massa, accosta l’educazione alla seduzione, in quanto educere è prossimo a seducere, nel suo significato etimologico di “condurre in disparte, condurre via”. Un essere trascinati e condotti oltre, fino ad allontanarsi da ogni sentiero già tracciato.[2]

In altri termini del concetto di educazione, fanno parte sia l’allevare, quell’ambito che risponde ai bisogni primari della persona collegati al vivere, sia l’apprendimento, la parte dell’educazione che permette di arricchirsi di conoscenza, sia il “prendersi cura”, che riguarda la sfera emotiva, affettiva e cognitiva della persona.

Cosa ben diversa è l’addestramento, che tende a standardizzare la persona – vista come entità ammaestrabile – trasformandola in individuo anonimo.

Pensiamo a Full Metal Jacket, un film del 1987 del regista Stanley Kubrick: nel campo di addestramento dei Marines di Parris Island, nella Carolina del Sud, diciassette giovani subiscono un durissimo addestramento per prepararsi alla guerra del Vietnam; i ragazzi vengono sottoposti al taglio dei capelli, come simbolo della privazione della loro identità: un “rito di passaggio” necessario per omologare gli individui in massa.

Massa, osserva Dolci, vuol dire pasta. E la pasta non può pensare. Si chiama massa la pasta molle, come la cera, i formaggi, o la neve, il fango, il letame. La massa impasta, gravita, appiccica, lievita, ma non comunica. Solo un organismo ai livelli più alti può comunicare. Non esiste la comunicazione di massa. Far marciare tutti allo stesso passo nelle caserme recintate; allettare con spettacoli il cui pregio viene misurato dal numero di spettatori; premiare un libro per quante copie vende; soprattutto trattare la massificazione come evento fatale: sono questi gli strumenti-ingredienti del massificare. Costipare gente da schiere di banchi nelle scuole a schiere di banchi di lavoro più o meno forzato; non favorire gli incontri e i rapporti tendenti a scoprire com’è possibile crescere insieme: così s’impasta la massa. Ovunque s’impasta gente che non fermenta e non cresce. Una società viva è ben altro che massa”.[3]

Al contrario, nel film del 1989 L’attimo fuggente di Peter Weir, il professore di letteratura John Keating instaura con i propri studenti un legame incentrato sulla fiducia, grazie ad un approccio didattico originale che spinge gli alunni a distinguersi secondo le proprie attitudini e a seguire la propria strada. Come scrive Pennac: “Forse è questo insegnare: farla finita con il pensiero magico, fare in modo che a ogni lezione scocchi l’ora del risveglio”.[4]

La vera educazione, pertanto, non è una trasmissione di conoscenza, ma la creazione di quelle possibilità per la sua produzione o costruzione. Un tema caro anche a Paulo Freire, che tanto insiste sui limiti di un’educazione “depositaria”, capace solo di offrire agli educandi saperi asettici da conservare e mettere in archivio. Una visione deformata dell’educazione perché non esiste creatività né trasformazione; fondamentale sarà perciò la “ricerca inquieta, impaziente, permanente che gli uomini fanno nel mondo col mondo e con gli altri”.[5] Ne Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister, Goethe è puntuale quando scrive: “La cosa più folle è che ognuno crede di dover trasmettere ciò che crede di aver saputo”.[6]

L’educazione è quindi un atto generativo e mai ripetitivo, perché fatto dalle persone; una promozione umana, un processo che inizia con la presa di coscienza della persona verso sé stessa, un conoscere i propri limiti e le proprie risorse: “Il maestro non è colui che possiede il sapere, ma colui che sa entrare in un rapporto singolare con l’impossibilità che attraversa il sapere, che è l’impossibilità di sapere tutto il sapere. Non perché non esista una Biblioteca delle Biblioteche capace di raccogliere tutto il sapere, ma perché, anche se esistesse e se leggessimo ogni suo libro, non avremmo affatto risolto il limite che attraversa il sapere come tale. Il sapere non si può mai sapere tutto perché è per sua struttura bucato, non-tutto, impossibile. Uno scarto irriducibile lo separa dal reale della vita. Si deve dire allora che un insegnamento ha come tratto distintivo il confronto con il limite del sapere attraverso il sapere”.[7]

L’educazione richiede una disponibilità all’incontro con l’altro, in uno scambio reciproco, e un rispetto dell’autonomia e della dignità di ciascuno: sono molto importanti, per questo, le conoscenze che nascono dall’esperienza; una continua costruzione della propria presenza nel mondo, in un costante processo di ricerca attraverso un’educazione permanente: “Un educatore viene formato innanzitutto dalla sua volontà di formarsi, di correggersi, di aprirsi e questa formazione, che dipende soprattutto da lui, non è mai acquisita una volta per tutte. (…) Se si educano degli esseri liberi, non esiste un’educazione senza rischi. Ma qual è allora il criterio che permette di dire che un’educazione è riuscita? Ce ne sono molti; ma il principale è che è riuscita se non è completata, se dà al soggetto i mezzi ed il desiderio di proseguirla, di farne un’auto-educazione. Dato che si può forse diventare ingegneri, medici o buoni cittadini. Ma non si finisce mai di diventare un uomo”.[8]

L’educazione si incarna in una cultura e in una società, ma non necessariamente si omologa a tale cultura. In ogni contesto in cui quella cultura diventa opprimente, l’educazione trova la forza di reagire contro di essa: pensiamo ad esempio a Don Milani, che ha combattuto quotidianamente contro l’ingiustizia sociale alla sua Scuola di Barbiana e con i suoi ragazzi, affermando più volte che il mondo è diviso fra oppressi ed oppressori – lotta che lo collega direttamente a Freire dall’altra parte del mondo, in Brasile, con l’alfabetizzazione degli adulti – e che l’obbedienza non è più una virtù e si deve avere il coraggio di dire ai giovani che sono tutti sovrani, e che si devono sentire ognuno l’unico responsabile di tutto.

Personalità come Alberto Manzi, che in Sudamerica sfidò l’analfabetismo per oltre vent’anni, insegnando agli indios nativi e aiutandoli a costruire cooperative agricole e piccole attività imprenditoriali. Intellettuali come Antonio Gramsci, che intese il lavoro politico come pedagogizzazione, una rivoluzione delle mentalità per l’emancipazione sociale, o Pierpaolo Pasolini, che parlò di una responsabilità sociale consapevole contro l’invasione aberrante della società dei consumi, negli anni del boom economico.

Parafrasando Reboul, si può quindi affermare che in ogni caso il fine ultimo dell’educazione è quello che permette ad ogni soggetto di completare la propria natura, in seno ad una cultura che sia veramente umana; può sembrare un obiettivo utopico, ma è l’unico, sostiene l’autore, che preserva l’educazione stessa sia dalla trascuratezza che dall’indottrinamento.[9]

di Francesca Mara Tosolini Santelli


[1] Cfr. Francesco Mattei, Sfibrata paideia. Bulimia della formazione, anoressia dell’educazione, Roma, Anicia, 2009, pp. 23-30.

[2] Cfr. Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino, 2014, pag. 59.

[3] Giuseppe Barone, a cura di, Danilo Dolci, Una rivoluzione non violenta, Supplemento al n. 82 – aprile 2007 di “Altraeconomia”, Terre di Mezzo Editore, Milano, pag. 44.

[4] Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2008, pag. 137.

[5] Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2011, pag.58.

[6] Johann Wolfgang Goethe, Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister, Medusa, Milano, 2005, pag. 289.

[7] Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi, Torino 2014, p. 5.

[8] Olivier Reboul, La filosofia dell’educazione, Armando Editore, Roma, 1997, pag. 92.

[9] Cfr. Olivier Reboul, La filosofia dell’educazione, Armando Editore, Roma, 1997.

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