Educazione e politica: comunicazione e comprensione del mondo

“La neutralità dell’educazione è impossibile. Ed è impossibile non perché lo decidono insegnanti ‘facinorosi’ e ‘sovversivi”. L’educazione non diventa politica perché lo decide questo o quell’educatore. Essa è politica”.

Paulo Freire

La pratica educativa è in stretta connessione con la società globale: l’educazione è politica; in ogni situazione si è costretti ad una scelta, un educatore deve prendere decisioni continuamente, verso i propri educandi e nei confronti del mondo. Deve essere in grado di favorire un cambiamento possibile e quindi credere, per primo, nel cambiamento, attraverso la capacità critica di lettura del mondo stesso.

In fondo l’educazione è un intervento sul mondo, un processo attraverso il quale l’essere umano riesce ad acquisire autonomia, indipendenza, responsabilità. Ma per fare questo bisogna attuare una rottura, bisogna uscire dalla platonica caverna, correndo dei rischi, bisogna liberarsi dai condizionamenti della propria esistenza.

Si tratta dunque di attuare una pratica critica soprattutto in una “modernità liquida” come quella attuale, in cui vengono meno i punti fermi che rendono capaci gli individui di investimenti affettivi sull’altro, di relazioni empatiche, di quell’attenzione che sarebbe necessaria nei rapporti tra gli esseri umani.

Questa capacità critica, imprescindibile, deve essere lo strumento attraverso il quale l’uomo – e l’educatore per eccellenza – mette in atto una ricerca di senso, si trasforma – sia detto con tutte le cautele – in una specie di “profeta”: “Si sta parlando di un profetizzare che non si deve buttare in trascendenza ma praticare nell’immanenza: per guardare ‘in alto e in avanti’ bisogna cioè restare con i piedi per terra. Un Profeta non va confuso con l’Indovino che vede il futuro, ma è piuttosto colui che lo evoca e talvolta lo prepara. (…) E allora il termine ‘profeta’ – fuori dalla sua storia ma non dalla sua etimologia – può scendere dal trono del sostantivo e diventare un ruolo ‘aggettivo’, a disposizione di quanti vogliano e possano ‘pre-dire’ ovvero ‘mandare avanti la parola’, al fine di indicare un modo diverso e poi aiutare un mondo migliore”.[1]

È la “parola” che risuona anche nell’opera di pedagogisti come Paulo Freire e Don Lorenzo Milani, convinti che essa possa essere uno strumento di comunicazione e di comprensione del mondo, proprio per l’importanza attribuita al legame profondo con il potere, come riconoscimento delle pari dignità degli uomini. In una lettera del gennaio 1966, indirizzata a Nadia Neri, Don Milani scrive: “I signori ai poveri possono dare una cosa sola: la lingua cioè il mezzo d’espressione. Lo sanno da sé i poveri cosa dovranno scrivere quando sapranno scrivere”.[2]

Parafrasando lo psichiatra Eugenio Borgna, potremmo dire che non c’è comunicazione autentica se non si hanno “parole capaci di creare un ponte fra la soggettività di chi parla e quella di chi ascolta, la soggettività di chi cura e la soggettività di chi è curato; e quando ci siano corrispondenze fra il tempo interiore dell’una e quello dell’altra”.[3]

In altri termini, non c’è comunicazione creatrice di dialogo e di cura “se non quando la ragione, la ragione calcolante, si converte in passione. (…) La sola comunicazione razionale riesce ad essere strumento di rinascita interiore, di crescita e di maturazione, che non sono possibili se non quando la comunicazione sia contestualmente razionale ed emozionale”.[4]

Nella comunicazione “l’io si confronta con un tu nell’orizzonte di un noi che fonde, e trascende, l’io e il tu in una nuova dimensione dalla quale si esce cambiati, e non si è più quelli di prima. In vita non c’è solo qualcuno che parla, comunicando qualcosa, e qualcuno che ascolta, ricevendo qualcosa, ma ci sono contemporaneamente, anche nel silenzio (si può comunicare con il silenzio e nel silenzio), un parlare e un ascoltare in una continua circolarità di esperienze che nascano dalla nostra capacità di emozionarci”.[5]

Non a caso Erich Fromm afferma che la norma che regola le relazioni umane è quella che ogni contatto tra individui determini un effetto in entrambi. L’incontro non lascerà immutato né l’uno né l’altro, anche se avvenuto in modo casuale.

Osserva il filosofo Salvatore Natoli che noi esistiamo solo nella e per la relazione e questo rende la responsabilità possibile e inevitabile: “Ognuno di noi esiste in virtù di altri, e non solo perché da altri è stato generato, ma perché da questo mondo sarebbe presto uscito, così come vi è entrato, se non fosse stato accolto, cresciuto, da qualcuno a suo modo amato. Nessuno di noi sarebbe al mondo se qualcuno non ci avesse preso in carico, non se ne fosse assunto la responsabilità”.[6]

Assumere su di sé in modo consapevole il peso degli altri non coincide con la generosità dell’offrire – o nell’offrire ciò che si può – con l’impegno per un mondo più giusto. “Essere responsabili di un altro non vuol dire affatto agire per suo conto – e meno che mai sostituire l’altro nella sua libertà – ma, al contrario, prendere la libertà dell’altro a misura della propria azione e del proprio limite. Questo sentirsi reciprocamente responsabili apre la strada al divenire vicendevolmente disponibili”[7].

Un’ “educazione dialogica”, quindi, come afferma Freire, perché senza il dialogo non esiste comunicazione e senza comunicazione non può esserci una vera educazione. Gli uomini si “costruiscono” attraverso il dialogo perché sono in fondo esseri comunicativi. Nel momento del dialogo, inoltre, gli uomini si incontrano per trasformare la realtà: “Quando si tenta di penetrare nel dialogo, come fenomeno umano, si scopre qualcosa che si identifica con lui: la parola. (…) Non esiste parola autentica che non sia prassi. Quindi, pronunciare la parola autentica significa trasformare il mondo”.[8]

Per l’autore brasiliano l’atteggiamento dialogico si trova alla base dell’educazione. Afferma però anche che non può esistere un dialogo senza amore, senza umiltà, senza fede negli uomini, senza speranza e senza un pensiero critico.

Si verrà quindi a creare un sistema di relazione capace di provocare dei cambiamenti che arrivano a toccare i diversi aspetti della persona, sia da un punto di vista razionale che da quello emotivo e sociale. Un cambiamento genera sempre una crisi rispetto a ciò che c’era prima e accompagna la formazione di un nuovo presente.

Ma sarà necessaria una riflessione dell’educatore sulle ragioni delle proprie azioni, riflessione che sarà avvalorata o messa in crisi proprio dalle risposte di chi si ha di fronte.

La necessità fondamentale dell’educatore stesso sarà perciò quella di saper “leggere” il mondo, attraverso tutti i suoi sensi, un’osservazione che passa dal particolare al globale, senza esclusione alcuna.

Dovrà inoltre condividere la realtà che ha percepito con gli altri per dare vita ad un “criterio di verità” che nasca dalla condivisione della lettura dell’altro.

Lo scrittore austriaco Hugo von Hofmannsthal ha definito le parole “creature viventi”, ma anche prigioni sigillate dal mistero, “e ogni volta dovremmo essere capaci di aprire queste prigioni, di togliere loro i sigilli, di farne sgorgare i significati”.[9]

La parola esprime quindi la sua forza in riferimento alla sua efficacia, cioè la fiducia che si ha nella parola stessa, un aspetto che oggi è venuto meno perché le parole che vengono pronunciate hanno perso il loro valore; è possibile affermare una cosa e subito dopo smentirla, senza vergogna né imbarazzo. Oggi la comunicazione è virtuale, meccanica, fredda, svuotata di significato. Il vuoto espresso da parole prive di profondità porta conseguentemente ad un vuoto di valori, mostrando una realtà che sembra insignificante. Infatti “inflazionando da un lato la parola, snervandola dall’altro, riducendola a una marmellata incolore, inodore e insapore, alla fine si perde la capacità di comprendere ciò che sta dietro la parola, cioè il messaggio che la parola comunica.”[10]

Le società stesse, ha osservato John Searle, vengono costruite e si reggono essenzialmente su una premessa linguistica: sul fatto, cioè, che formulare un’affermazione comporti un impegno di verità e di correttezza nei confronti dei destinatari.

Ci capita sempre più spesso di pagare senza vedere il denaro, di sottoscrivere contratti senza avere davanti un interlocutore, di organizzare viaggi online, di creare palinsesti televisivi personalizzati. Abbiamo a disposizione sconfinati territori informativi e relazionali, come se il mondo fosse sempre in diretta per noi.

I nuovi mezzi di comunicazione hanno conquistato la nostra vita, ne scandiscono i ritmi, sono i custodi delle chiavi dei nostri spazi e del nostro tempo. Ma tutto avviene a distanza, senza contatti, se non virtuali, e sperimentiamo il graduale affievolirsi della conversazione faccia a faccia, a favore di una comunicazione che ci consente di evitare la vicinanza, l’espressione, lo sguardo, il respiro, le reazioni, le emozioni, il volto dei nostri interlocutori[11].

di Francesca Mara Tosolini Santelli


[1] Piergiorgio Giacchè, Fisher, Montesano, Siti: tre libri di testo e di contesto, in Gli Asini, n. 54-55 agosto-settembre 2018, Roma, pag. 22.

[2] Scuola di Barbiana, Don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa, Mondadori, Milano, 2017, pag.159.

[3] Eugenio Borgna, Parlarsi. La comunicazione perduta, Torino, Einaudi, 2015, pag. 5-6.

[4] Ivi, pag. 7.

[5] Eugenio Borgna, Parlarsi. La comunicazione perduta, Torino, Einaudi, 2015, pag. 9

[6] Salvatore Natoli, Parole della filosofia o dell’arte di meditare, Milano, Feltrinelli, 2004, pag.137.

[7] Ivi, pag. 139.

[8] Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2011, pag. 77.

[9] Eugenio Borgna, Parlarsi. La comunicazione perduta, Torino, Einaudi, 2015, pag. 11.

[10] Gianfranco Ravasi, La voce del silenzio, EDB, Bologna, 2018, pag. 40.

[11] Dario Edoardo Viganò, Connessi e solitari. Di cosa ci priva la vita online, Bologna, EDB, 2017.

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